giovedì 20 giugno 2013

Capannoni invenduti. Stop al pagamento dell’Imu




Questo l’impegno assunto dal Governo: abolire l’Imu, per almeno tre anni, sulle aree e sui fabbricati invenduti delle imprese costruttrici.

Il provvedimento, che accoglie un ordine del giorno presentato dalla deputata Gabriella Giammanco (Pdl) ha avuto il via libera della Camera con 447 voti favorevoli, 21 astensioni e nessun contrario. Ora il testo passa all’esame del Senato. Se anche lì troverà approvazione, saranno ascoltate le richieste delle aziende che da tempo lamentano l’eccessiva onerosità della tassa, che aggrava le condizioni di settori già in crisi.
Il bilancio delle compravendite di capannoni, uffici e negozi avvenute nel 2012 è infatti color “profondo rosso”: le compravendite sono crollate del 24%, e il leasing segna -17,7%. Quanto ai capannoni, la flessione è stata del 19,7%. Questo secondo i dati diffusi dall’Agenzia delle entrate, in collaborazione con l’Associazione italiana delle società di leasing (Assilea). Inoltre, dal 2008 a oggi, il fatturato annuale della maggior parte delle aziende è diminuito del 40%.
Ma vediamo qual è la disciplina attuale riguardante l’Imu per queste categorie d’immobili.
Ricordiamo che la legge fissa il limite minimo e massimo delle aliquote applicabili alla base imponibile Imu per ogni tipologia di immobile a cui devono attenersi i Comuni. Entro questi vincoli, le amministrazioni locali hanno ampi margini di autonomia, potendo anche differenziare le aliquote per singola categoria catastale.
Per i capannoni industriali, le fabbriche, i centri commerciali, gli alberghi, i teatri, i cinema, gli ospedali privati, le palestre e gli stabilimenti balneari e termali a fine di lucro, classificati con categorie dalla D/1 alla D/10 (esclusa la D/5) si applica un’ulteriore maggiorazione. Quindi, la base imponibile è data dalla rendita catastale rivalutata del 5%, cui si applica il moltiplicatore 65 (non più 60, come nel 2012).
L’Imu si applica anche sugli “immobili-merce” delle imprese edili, cioè sui fabbricati costruiti per la successiva vendita che, in tal modo, sono gravati di una tassazione di natura patrimoniale ancor prima di essere immessi sul mercato.
Il Decreto legge 24 gennaio 2012, n.1 (Decreto Liberalizzazioni), ha dato ai Comuni la possibilità di ridurre l’aliquota fino allo 0,38% per i fabbricati costruiti e destinati alla vendita da parte dell’impresa costruttrice. L’articolo 56 consente ai Comuni di dimezzare la tassazione standard sui magazzini delle imprese di costruzione, dunque per essi si ha un’Imu ridotta. Tali fabbricati devono però essere destinanti alla vendita e comunque la loro costruzione o il loro recupero deve risultare completato. Inoltre, il contribuente dev’essere un’impresa di costruzione. L’utilizzo dell’aliquota ridotta è sottoposto a dei limiti temporali, in generale di tre anni: trascorsi 36 mesi dall’ultimazione dei lavori, si tornerà a subire il carico tributario pieno. Vi sono poi limiti specifici riguardanti il momento in cui il cespite viene qualificato come immobilizzazione (ad esempio per destinarlo ad uffici aziendali) o la sua locazione (anche se mantenuto in bilancio perché comunque disponibile nella vendita nell’ambito dell’attivo circolante).
La Legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Legge di Stabilità 2013) da un lato ha soppresso la riserva allo Stato; dall’altro, ha istituito una quota erariale sui soli fabbricati D «ad uso produttivo». L’esistenza della quota d’imposta statale comporta nuove penalizzazioni per le unità in esame.
In primo luogo, impedisce ai Comuni di deliberare aliquote inferiori allo 0,76%, poiché questo è un limite posto nell’interesse dello Stato.
In secondo luogo, la norma prevede che i Comuni, per evitare eccessive perdite di introito, possano elevare l’aliquota sino all’1,06%, acquisendo tutto l’extra gettito. Tale innovazione, tuttavia, si scontra coi fondamentali dell’Imu, che nasce per sostituire sia l’Ici sia l’Irpef sui redditi fondiari degli immobili non locati. Gli immobili d’impresa, cui in buona parte appartengono i fabbricati D, proprio perché produttivi di un tipo particolare di reddito, quello d’impresa, dovevano essere esclusi ab origine da questo effetto sostitutivo. Una situazione da sanare.
FONTE : ATTICO.IT

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