venerdì 20 dicembre 2013

Vietato parcheggiare nel cortile se ciò rende difficile agli altri condomini raggiungere case e box auto

Vietato parcheggiare nel cortile se ciò rende difficile agli altri condomini raggiungere case e box auto

18/12/2013
di Alessandro Gallucci


Una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la n. 27940 del 13 dicembre 2013, ci permette di tornare a parlare dell’uso del cortile condominiale: il contenuto della pronuncia, poi, ci consente alcune riflessioni più generali.
 
La questione affrontata e risolta dagli ermellini è sempre di grande attualità: parcheggio nelle parti comuni dell’edificio.
 
Nel caso di specie un condomino parcheggiava nel cortile rendendo difficile agli altri l’accesso alle unità immobiliari e – nello specifico a chi gli faceva causa – ai box auto.
 
Il cortile è bene ricordarlo tecnicamente, è l'area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare aria e luce agli ambienti circostanti.
 
In questo contesto, s’è specificato che avuto riguardo all'ampia portata della parola e, soprattutto, alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell'edificio - quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, i distacchi, le intercapedini, i parcheggi - che, sebbene non menzionati espressamente nell'art. 1117 cod. civ., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione (Cass. 9 giugno 2000, n. 7889).
 
Se il cortile non ha una specificazione destinazione d’uso, allora può essere utilizzato da tutti i condomini nel rispetto del pari diritto dei loro vicini: insomma nei limiti di quanto stabilito dall’art. 1102 c.c. 
 
Per completezza riportiamo il testo della norma che recita:
 
Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa.
 
In sostanza:
 
rispetto della destinazione d’uso;
obbligo per ognuno di non ledere il pari diritto degli altri.

 
Pari diritto non vuol dire possibilità di utilizzazione identica e contemporanea ma anche solamente diritto di farne un altro uso che non venga impedito dalla condotta degli altri condomini. In buona sostanza n sottile gioco di equilibri non rispettato nel caso risolto con la sentenza n. 27940.
 
Quanto al divieto di parcheggio nel cortile, che sostanzialmente la pronuncia impugnata aveva imposto, gli ermellini hanno detto che tale divieto era da ritenersi legittimo poiché nel corso della causa era emerso chiaramente che quella parte comune “ non si prestasse al parcheggio di autovetture, ma soltanto al passaggio delle persone ed al transito dei veicoli diretti nelle rimesse, aventi accesso dal medesimo, facoltà il cui esercizio sarebbe stato ostacolato o reso incomodo dalla presenza di veicoli in sosta”. 
 
Questa motivazione, hanno chiosato da piazza Cavour (qui torna utile quanto accennato il merito all’art. 1102 c.c.) “è perfettamente rispondente alla fondamentale regola di cui all’art. 1102 co. 1 c.c., secondo la quale l’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante non può alterarne la destinazione, da intendersi in concreto in considerazione delle caratteristiche obiettive e funzionali, e non impedire il concorrente uso degli altri comunisti, secondo il loro diritto” (Cass. 13 dicembre 2013 n. 27940).
 
Il principio non vale solamente per i cortili ma anche per gli spazi di manovra nelle autorimesse. La sosta e la fermata sono da ritenersi vietate se impediscono o rendono gravemente difficoltosa l’utilizzazione dei box auto.

Condominio Web
Fonte : condominioweb.com

Rovina degli edifici e responsabilità dell’amministratore di condominio: non sempre l’amministratore risponde dei danni causati dalle parti comuni dell’edificio.

Rovina degli edifici e responsabilità dell’amministratore di condominio: non sempre l’amministratore risponde dei danni causati dalle parti comuni dell’edificio.

18/12/2013
Avv. Mauro Blonda


La manutenzione dell’immobile e gli obblighi dell’amministratore. Trattando degli ascensori ("Omessa manutenzione degli ascensori. Rischia grosso l’amministratore di condominio") e della loro manutenzione si è già avuto modo di chiarire come gravi sull’amministratore di condominio l’obbligo di curare la conservazione delle parti comuni degli edifici, secondo quanto espressamente previsto dal codice civile all’art. 1130 comma 1 n. 4: relativamente a queste parti comuni, infatti, tale norma impone all’amministratore nello specifico di “compiere gli atti conservativi dei diritti”, ossia intraprendere ogni azione volta alla tutela dei diritti che riguardino le parti comuni (si pensi alle azioni reali od a quelle possessorie, ove vengano minacciati il diritto di proprietà o di uso delle parti comuni) ma anche e soprattutto di curarne la manutenzione nel senso fisico.
 
Spetterà quindi all’amministratore, previa delibera assembleare, non solo promuovere le azioni giudiziarie necessarie alla difesa o comunque tutela dei diritti inerenti gli spazi ed i beni prettamente condominiali, ma anche avere cura che questi siano sempre conservati in buono stato e soprattutto badare che non arrechino danni a terzi.
 
La posizione di garanzia derivante dall’art. 1130 cod. civ.: la responsabilità oggettiva dell’amministratore
 
La previsione normativa in parola pone quindi in capo all’amministratore un obbligo ben preciso: quello di prendersi cura delle parti comuni dell’edificio.
 
Diretta conseguenza di tale obbligo è la responsabilità dell’amministratore dell’eventuale rovina di tali parti nonché degli eventuali danni causati a terzi.
 
Tale responsabilità è di duplice tipo: civile e penale.
 
Civile, poiché dalla rovina e dai danni eventualmente arrecati a terzi deriva un obbligo risarcitorio; penale, ove tali eventi (o le loro conseguenze) abbiano risvolti penalmente rilevanti.
 
Si pensi, ad esempio, al caso in cui una parte comune dell’edificio, per le sue pessime condizioni di manutenzione, arrechi danno a qualcuno, magari di tipo fisico: tale evenienza, in ambito penalistico, assume i connotati delle lesioni di cui all’art. 582 cod. pen. che, secondo l’espressa previsione dell’art. 589 cod. pen., possono essere punite anche a titolo di colpa (quindi anche ove non siano determinate dal dolo, ossia dalla volontà e volontarietà del soggetto agente).
 
L’art. 40 del cod. pen., poi, chiarisce che risponde (penalmente) di un evento colui che aveva l’obbligo di impedirlo.
 
È quindi facile comprendere come delle lesioni subite da un soggetto per la rovina di un bene condominiale non curato risponderà direttamente l’amministratore di condominio: questi infatti, non avendo curato la manutenzione cui era tenuto per legge (art. 1130 cod. civ.), ha di fatto non impedito un l’evento lesivo e ne risponderà, quindi, secondo l’art. 40 c.p..
 
L’amministratore, in casi del genere, viene quindi a trovarsi nella spiacevole condizione di chi è “presunto colpevole”, dal momento che l’evento lesivo è a lui direttamente imputabile, alvo prova del contrario.
 
La prova della mancanza di colpe. La cosiddetta (e così chiarita) posizione di garanzia rivestita dall’amministratore di condomino, con riferimento ai danni arrecati dal cattivo stato manutentivo delle parti comuni, gli impone di provare in caso di evento lesivo non tanto la sua estraneità ai fatti quanto l’assenza di “nesso eziologico”: l’amministratore deve cioè provare che l’evento non è conseguenza della sua omissione (manutentiva).
 
Tale prova potrà essere raggiunta dimostrandosi o il caso fortuito (ossia l’evento è dipeso da eventi straordinari e non prevedibili) o soprattutto l’adempimento all’obbligo di legge, cui nonostante è seguito l’evento.
 
L’amministratore andrà quindi esente da colpe tutte le volte in cui riuscirà a dimostrare che l’evento addebitatogli, ossia la rovina delle parti comuni e, nel caso di specie, le lesioni che ne sono derivate, si sono verificate nonostante egli abbia adempiuto all’obbligo di manutenzione che la norme gli impone. Egli, infatti, non è direttamente tenuto ad evitare l’evento ma a far sì che esso non si verifichi: tutte le volte in cui avrà provato di essersi diligentemente e sufficientemente adoperato per evitare l’evento non ne risponderà benché esso si sia verificato. In caso contrario si violerebbe il noto principio per il quale ad impossibilia nemo tenetur (nessuno può essere costretto all’impossibile).
 
La rovina delle parti comuni mal riparate. Così, ad esempio, in caso di rovina di un balcone nonostante la recente (ma, evidentemente, non sufficiente) manutenzione, non potrà essere condannato per lesioni colpose e non dovrà quindi risarcire i danni che ne sono derivati l’amministratore di condominio, specie ove dimostri di aver affidato i lavori ad una ditta che ne ha garantito l’efficacia: affidati i lavori ad una ditta e ricevute le garanzie di successo dell’intervento manutentivo, che altro avrebbe dovuto fare l’amministratore? A che titolo gli si potrebbe contestare l’eventuale successivo pur verificatosi danneggiamento? Quali colpe potrebbero venirgli addebitate?
 
La risposta è nessuna, ed egli andrà quindi dichiarato assolto dal reato di lesioni colpose eventualmente contestatogli, come ribadito in una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 46196 del 18/11/2013) che ha colto l’occasione per chiarire come in casi nel genere difetti l’elemento psicologico del reato (ossia “la colpa”), non essendosi l’amministratore sottratto agli obblighi di legge che, solo ove violati, ne avrebbero invece comportato la responsabilità secondo quanto previsto dall’art. 40 cod. pen.

Condominio Web
Fonte : condominioweb.com

Mercato immobiliare fermo? La nuda proprietà è la soluzione!

Mercato immobiliare fermo? La nuda proprietà è la soluzione!


19/12/2013
Avv. Stefano Narducci


La crisi finanziaria cominciata 5 anni fa negli Stati Uniti ha portato come diretta e immediata conseguenza la crisi del mercato immobiliare di una delle economie più importanti del mondo, mostrando come lo stesso si reggesse su un castello di carte – nel vero senso della parola, perché tali erano i mutui c.d. “ subprime” – crollato alle prime intemperie.
 
A seguito dello scoppio della bolla immobiliare americana si è innescato un meccanismo perverso che ha contaminato, mese dopo mese, tutta l’economia degli USA prima e del mondo intero poi, portandoci a vivere l’attuale contesto di crisi, dal quale ancora non si vedono chiare possibilità di uscita, almeno nell’immediato. Contemporaneamente, anche tutti gli altri Paesi del mondo, compreso il nostro, sono stati toccati in quel settore dell’economia sempre trainante, vale a dire l’immobiliare.
 
Che cosa è avvenuto in questi ultimi anni nel mercato immobiliare e quali spiragli si intravedono. Sono tante le persone che in questi ultimi anni si sono viste privare della casa, costrette a rinunciarvi poiché impossibilitate a pagare le rate dei mutui contratti con le banche a causa della riduzione della capacità reddituale, con un numero sempre crescente di immobili che ogni giorno vengono proposti alle aste giudiziarie, diventate fonte di investimento per chi continua ad avere a disposizione una buona liquidità.
 
Senza entrare nel merito delle aste giudiziarie e degli immobili che è possibile acquistare attraverso questo meccanismo, vogliamo analizzare una nuova opportunità che si sta facendo strada in questi anni di crisi, sia per chi ancora è proprietario di immobili, sia per chi vorrebbe investire nel mattone, uno dei beni-rifugio per eccellenza. Si tratta della vendita della nuda proprietà.
 
Nuda proprietà e usufrutto: cosa sono e che cosa li rende così interessanti.La nuda proprietà è il diritto vantato da chi, pur avendo la titolarità del bene immobile, non può goderne finché l’usufruttuario, che è colui il quale ha il pieno godimento dello stesso, non cessa il suo diritto, il che avviene per morte ovvero per decorso del termine pattuito.
 
Con questa scissione della proprietà dal godimento, entrano quindi in gioco due diverse figure: il nudo proprietario (titolare del bene senza possibilità di goderne) e l’usufruttuario (titolare del pieno godimento del bene fino alla morte o al termine previsto, che lo possiederà e potrà quindi utilizzarlo appieno).
 
Questa soluzione soddisfa due opposte esigenze: quella di godimento (quindi abitativa) garantito dalla sicurezza di un termine lungo, che fa capo all’usufruttuario e quella di investimento con notevoli possibilità di rivalutazione, che fa invece capo al nudo proprietario.
 
Perché la vendita o l’acquisto della nuda proprietà è conveniente per entrambe le parti? La convenienza di questa soluzione giuridica per le due parti protagoniste è di tutta evidenza, atteso che consente di sbloccare il mercato immobiliare, perché economicamente vantaggiosa per tutti.
 
Infatti, chi decide di investire in “nuda proprietà” si ritroverà successivamente “pieno proprietario” dell’immobile stesso ad un prezzo notevolmente scontato rispetto a quello previsto per la piena proprietà, con i seguenti vantaggi: 
 
realizzerà una importante rivalutazione, sicuramente maggiore di quella che avrebbe ottenuto acquistando da subito la piena proprietà;     
                          
acquisterà - per legge - la piena proprietà dell’immobile al momento della morte dell’usufruttuario ovvero decorso il termine di durata dell’usufrutto, con un notevole guadagno fra prezzo dell’investimento iniziale e successiva rivalutazione.

 
Colui che vende l’immobile riservandosi l’usufrutto, a sua volta, conserverà il pieno godimento della sua casa fino alla morte, potendola anche affittare in caso di necessità, ottenendo così anche una rendita dalla stessa durante la vita. E’ come se fosse il conduttore di un immobile in locazione con alcuni notevoli vantaggi:
 
non paga nessun canone di locazione per godere di quella casa;
      
può far vivere con lui chi vuole;
può decidere di affittarla ottenendo una rendita;
può cedere l’usufrutto a titolo oneroso se non è vietato dalle pattuizioni con il nudo proprietario;  
               
ottiene immediatamente dal nudo proprietario una liquidità che può impiegare per le sue esigenze di vita
.

 
Proviamo a fare un esempio concreto, che spiega al meglio perché la vendita della nuda proprietà si va affermando sempre più in tempi di crisi.
 
Tizio ha 60 anni ed è proprietario di una casa che vale circa 100.000,00 euro. Decide di venderne la nuda proprietà, che considerando la sua età e l’aspettativa di vita vale circa 45.000,00 euro. Con questa operazione potrà continuare a viverci e ad usarla come faceva da pieno proprietario, avendo in più in tasca ben 45.000 euro.
 
L’acquirente Caio, a sua volta, che ha risparmiato un po’ di denaro e lo vuole investire in un bene rifugio, avrà speso una cifra inferiore della metà rispetto al valore di mercato, per ottenere un immobile che dopo 15-20 anni varrà molto più degli attuali 100.000,00 euro, rivalutando in questo modo di oltre il 50% l’investimento effettuato.
 
Le opportunità che apre questo strumento giuridico sono davvero molto interessanti. Per questo, nel prossimo articolo, vedremo alcuni utilizzi pratici, offrendo spunti sia per i proprietari di immobili, sia per chi vuole investire nel sempreverde mattone.

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Destinazione Italia. Due utili allegati per scoprire come cambierà la normativa sul condominio

Destinazione Italia. Due utili allegati per scoprire come cambierà la normativa sul condominio


19/12/2013
di Ivan Meo


Potremmo definirla una mini riforma della riforma del condominio. Appena entrata in vigore lo scorso 18 giugno 2013, la legge n. 220 del 2012, meglio conosciuta ai non addetti ad un lavori, come la legge di riforma del condominio, ha subito il suo primo restyling grazie al pacchetto di norme varate dal Consiglio dei Ministri nel decreto che prende il nome di decreto “destinazione Italia”. Voluta fortemente dalle associazioni della proprietà e degli amministratori, fin dalle prime battute, alcune norme, avevano presentato delle difficoltà applicative e quindi necessitavano di  piccole ma necessarie revisioni.
 
La norma. L’articolo 1 rubricato “disposizioni per la riduzione dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, e per l’introduzione di un sistema incentivante opzionale offerto ai produttori di energia elettrica rinnovabile, per gli indirizzi strategici dell’energia geotermica ed in materia di certificazione energetica degli edifici e di condominio” contiene le modifiche da apportare alla recente legge 220 del 2012 meglio conosciuta come legge di riforma del condominio. Precisamente in relazione alla disposizione di cui al comma 9  si precisa: “a quasi un anno dall’entrata in vigore della riforma della disciplina del condominio negli edifici, operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, la norma introduce alcuni correttivi mirati, volti a superare le difficoltà che si sono manifestate nella fase di prima applicazione della riforma stessa”.
 
Formazione degli amministratori di condominio: La lettera a) del comma 9 si occupa espressamente del “pacchetto formativo”. La finalità di questo intervento normativo è quello di colmare un vuoto legislativo esistente nella legge n. 220/2012; la quale, pur prevedendo la formazione obbligatoria degli amministratori di condominio (tanto quella iniziale, quanto quella periodica), non reca rinvio ad una fonte secondaria che individui sia i requisiti che devono essere posseduti per esercitare l’attività di formazione, sia i criteri e le modalità di svolgimento dei corsi. Per tali motivi la lacuna viene colmata prevedendo  che vangano stabiliti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, gli standard per lo svolgimento della formazione in parola.
 
Risparmio energetico. Il decreto introduce rilevanti novità per il settore delle fonti rinnovabili, tutte improntate al fine di ridurre il peso sui consumatori dei costi dell’energia elettrica. Secondo il  Governo questo intervento avrà un notevole impatto sugli oneri di sistema. In tale contesto, per stimolare e favorire gli interventi volti a conseguire il risparmio energetico, si riduce la maggioranza richiesta per l’adozione delle relative decisioni da parte dell’assemblea condominiale. Si elimina il quorum dei 2/3 della maggioranza ed al suo posto verrà inserito quello pari a 1/3 limitatamente ai lavori attinenti il risparmio energetico.
 
Anagrafe condominiale. I dati relativi alle condizioni di sicurezza da inserire nell’anagrafe condominiale sono solo quelli relativi alle parti comuni dell’edificio, di cui all’articolo 1117 del Codice civile, evitando che la formulazione normativa più generica possa dar luogo a intromissioni nelle proprietà individuali anche allorché le attività ivi realizzate non interferiscano in alcun modo con la tutela delle strutture essenziali e comuni (tra cui quelle portanti dell’edificio), indicate nell’articolo 1117. Non saranno più indispensabili le dichiarazioni emesse dai singoli condomini sulle condizioni di sicurezza delle loro unità immobiliare: scompare la famosa e odiata “ dichiarazione sulla sicurezza del singolo appartamento”.
 
Fondo lavori straordinari. La lettera d) mira a superare le problematiche che si sono riscontrate, da parte di amministratori e proprietari, a causa dell’obbligatorietà dell’integrale costituzione anticipata del c.d. Fondo Lavori. L’esborso integrale e anticipato dell’intera somma impegnata costituisce, infatti, uno dei principali disincentivi all’adozione di nuove delibere per l’avvio di lavori di ristrutturazione. Ciò provoca un sensibile impatto negativo sul settore dell’edilizia, mercato che già da tempo risente della sfavorevole congiuntura economica in atto. La norma proposta, senza snaturare la ratio della riforma, reca un correttivo all’istituto del Fondo Lavori, contemperando le ragioni creditorie dell’appaltatore con le esigenze economiche dei proprietari (che, specie in questo momento di recessione economica, hanno notevoli difficoltà ad anticipare l’intera somma dovuta). In sostanza, la nuova possibilità di costituire il Fondo, che comunque resta obbligatorio e che deve sempre essere anticipato, in relazione ai singoli pagamenti dovuti all’appaltatore per ogni stato di avanzamento dei lavori rappresenta un bilanciamento degli interessi che soddisfa e contempera al meglio le esigenze di tutti gli attori della vicenda contrattuale. In pratica il fondo condominiale si può considerare costituito se i lavori vanno eseguiti in base a un contratto con pagamento graduale a stato di avanzamento.
 
Sanzioni. La lettera e) colma una palese lacuna della recente riforma: nella quale il meccanismo per l’irrogazione delle sanzioni per la violazione del regolamento condominiale non era stato specificato dalla legge n. 220/2012. Ciò vanificava, di fatto, ogni possibilità di ottenere qualcosa dai condomini inadempienti agli obblighi imposti dal regolamento condominiale. La misura proposta affida dunque le scelte sanzionatorie in proposito direttamente all’assemblea, che decide con la maggioranza degli intervenuti e con almeno 500 millesimi dell’edificio.
 
Infine, sempre  nello stesso decreto, è stata prevista un modifica in merito al sistema sanzionatorio in caso di mancanza dell’APE: non comporterà più la nullità del contratto, bensì una vera e propria sanzione pecuniaria. Acquirente, venditore, locatore e conduttore, dovranno pagare in solido e in parti uguali una sanzione compresa tra 3000 e 18 mila euro, che scende in un range compreso tra 1000 e 4000 euro per i casi di mancata dichiarazione relativi ai contratti di locazione di singole unità immobiliari (se la durata della locazione non supera i tre anni la sanzione viene dimezzata). Anche lo stesso certificatore energetico o professionista qualificato che sottoscriverà un Attestato di Prestazione Energetica non rispettando i criteri e le metodologie della normativa vigente, verrà punito con una sanzione pecuniaria quantificabile fra i 700 e i 4200 euro; la sanzione sarà comminata dalla Regione che dovrà obbligatoriamente comunicarne l’inadempienza agli Ordini professionali di appartenenza del certificatore/tecnico qualificato. Sono previste sanzioni anche per il proprietario dell’immobile o il costruttore che non dovessero dotare di APE rispettivamente gli interventi di grossa ristrutturazione (che interessano oltre il 25% della superficie dell’involucro edilizio, pareti e tetto) e la realizzazione di una nuova costruzione: la sanzione va dai 3000 ai 18000 euro.
 
Allegato n.1 art. 1 comma 9  del Testo Destinazione Italia. 
http://www.condominioweb.com/img_art/Testo_Modifiche_Destinazione_Italia.pdf


Allegato n.2 il testo delle nuove norme modificate.
http://www.condominioweb.com/img_art/Le_norme_modificate.pdf


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I condomini presenti per delega devono essere conteggiati ai fini del calcolo del quorum deliberativo e costitutivo dell’assemblea

I condomini presenti per delega devono essere conteggiati ai fini del calcolo del quorum deliberativo e costitutivo dell’assemblea

20/12/2013
di Alessandro Gallucci


Le deleghe rappresentano lo strumento attraverso cui ogni condomino può partecipare all’assemblea facendosi rappresentare da un’altra persona.
 
Il delegato è chi partecipa all’assemblea, il delegante colui che conferisce l’incarico di partecipare in suo nome e conto.
 
La legge di riforma del condominio (l. n. 220/2012) ha imposto un limite alle deleghe accumulabili per quei condomini con più di venti partecipanti.
 
Esattamente, ai sensi del primo comma dell’art. 67 disp. att. c.c. 
 
Ogni condomino può intervenire all'assemblea anche a mezzo di rappresentante, munito di delega scritta. Se i condomini sono più di venti, il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale.
 
Il quinto comma della medesima norma vieta di conferire la delega all’amministratore di condominio.
 
In questo contesto un nostro lettore di domanda:
 
“Secondo il nuovo art. 1136 c.c. (valido dopo la riforma del condominio): "la deliberazione è valida se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio".
Il nostro condominio è composto da n. 29 condomini, pertanto il numero occorrente è pari a 9,66666 = a 10,    però  nelle ultime due assemblee la presenza fisica è stata solamente di otto condomini, di cui due  anche in possesso  di deleghe da altri quattro condomini.
Nel conteggio delle presenze l'amministratore ha conteggiato 8 + 4 =  12  ritenendo validamente costituita l'assemblea in seconda convocazione.   La mia domanda è la seguente, le quattro deleghe ricevuta da altrettanti quattro condomini assenti vanno considerate come presenze, o come credo il totale delle presenze resta otto.
Cioé, un condomino con due deleghe nel conteggio del numero dei voti che rappresenti un terzo dei partecipanti al condominio vale 1 + 2  o  viene conteggiato sempre come una sola presenza?”.
 
Il nostro lettore si sofferma sui quorum deliberativi della seconda convocazione e porta l’esempio con i calcoli della sua compagine.
 
Quanto chiede, però, ha valenza generale ed è riferibile tanto alle deliberazioni in prima convocazione quanto ai quorum costitutivi di entrambe le convocazioni.
 
La risposta è semplice: il condomino che viene delegato a partecipare deve essere sempre conteggiato per se stesso e per tutte le persone rispetto per le quali s’è preso l’impegno di partecipare all’assemblea.
 
Insomma se Tizio partecipa per se e per i suoi vicini Caio e Sempronio, sul verbale dovrà essere riportata la presenza di Tizio e per delega di Caio e Sempronio. Quindi, nella realtà dei fatti, Tizio voterà e sarà presente per sé e per altre due persone che in questo modo devono essere tenute in considerazione, sia per i millesimi, sia come presenza “fisica”, anche se per delega. In pratica una finzione giuridica che serve a facilitare il funzionamento del condominio.

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Condannati per lite temeraria i condomini che si opponevano alla rimozione dei serbatoi d’acqua posizionati nel cortile condominiale

Condannati per lite temeraria i condomini che si opponevano alla rimozione dei serbatoi d’acqua posizionati nel cortile condominiale

20/12/2013
Avv. Giuseppe Donato Nuzzo


(Giudice di Pace di Reggio Calabria, sentenza n. 2884 del 14 novembre 2013) 
 
I serbatoi d’acqua posizionati nel cortile condominiale vanno rimossi se impediscono al condomino di accedere al garage di sua proprietà. Condannati per lite temeraria i condomini che si opponevano alla rimozione con motivazioni del tutto infondate e pretestuose.
 
Il caso. L’interessante sentenza del Giudice di Pace di Reggio Calabria prende le mosse dalla classica lite per l’uso del cortile comune. Un condomino lamentava la posa in opera di due grossi serbatoi d’acqua nel cortile condominiale,che impedivano il libero accesso al garage di sua proprietà. Dopo vari tentativi di definizione bonaria, rimasti senza esito, il condomino avviava un procedimento di accertamento tecnico preventivo, che stabiliva la possibilità di posizionare in sicurezza i serbatoi in un vano interno dell’edificio.
 
Ciò nonostante, i condomini insistevano nel sostenere l’impossibilità di spostare i serbatoi, ragion per cui il condomino era costretto a ricorrere al Giudice di Pace per chiedere esecuzione dell’accertamento tecnico, oltre al risarcimento dei danni. Nelle more del giudizio, i condomini convenuti decidevano finalmente di rimuovere i due serbatoi secondo le modalità indicate dal c.t.u.,pur continuando ad opporsi alla domanda attrice eccependo, in particolare, l’incompetenza a decidere del giudice adito.
 
Il Giudice di Pace di Reggio Calabria, ritenute infondate e pretestuose le eccezioni mosse, ha accolto la domanda e condannato i convenuti al pagamento delle spese processuali, oltre al risarcimento dei danni per lite temeraria, liquidati in via equitativa.
 
La sentenza in rassegna offre lo spunto per alcune riflessioni di ordine generale in merito ai principi che governano l’uso del cortile condominiale, nonché riguardo alla condanna per “lite temeraria”della parte che si difende in giudizio con eccezioni del tutto infondate e pretestuose.
 
Corretto uso del cortile condominiale. Una questione di “equilibrio”. Se il cortile non ha una specifica destinazione d’uso pattuita dalle parti e/o specificata nel titolo o nel regolamento, allora può essere utilizzato da tutti i condomini nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., ai sensi del quale “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
 
Il pari uso non va inteso nel senso di uso identico e contemporaneo. Ogni partecipante ha la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri.
 
Non alterare la destinazione significa non apportare modifiche che incidano sulla sostanza e strutturadel bene, pregiudicando in tutto o in parte la facoltà d’uso degli altri partecipanti. L’uso esclusivo del bene da parte del singolo, che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri e non riconducibile alla facoltà del singolo di trarre dal bene comune la più intensa utilizzazione, integra un uso illegittimo.
 
Nel caso di specie, la posa in opera di due serbatoi ha inibito l’uso del cortile al condomino attore, impedendo altresì il libero accesso al garage di sua proprietà. Correttamente, dunque, è stato configurato un uso illegittimo del cortile, viepiù considerata la possibilità di collocare i serbatoi in altro luogo senza pregiudizio alcuno e, anzi, con maggiori garanzie di sicurezza per tutti i condomini.
 
Condanna alle spese per lite temeraria. L’art. 96 c.p.c., all’ultimo comma, dispone: “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. La ratio della norma è quella di punire la parte che non adempia spontaneamente i propri obblighi, costringendo la controparte a un giudizio, e/o agisca o resista in giudizio infondatamente e pretestuosamente. La norma introduce nel sistema giudiziario un elemento di dissuasione dal comportarsi in tal modo: la consapevolezza di poter subire la condanna di cui al 3° comma dell’art. 96 c.p.c. induce (o almeno dovrebbe indurre) le parti a ponderare con prudenza le loro condotte stragiudiziali e giudiziali.
 
Insistere pur sapendo di aver torto può costare caro. Condivisibile la decisione del Giudice calabrese, che, a fronte del reiterato e ingiustificato rifiuto dei condomini di rimuovere i serbatoi in questione, ha punito la condotta giudiziale e stragiudiziale degli stessi condannandoli alle spese processuali e al rimborso della c.t.u., oltre al pagamento di mille euro per aver reiteratamente, illegittimamente e ingiustificatamente rifiutato di ottemperanza all’accertamento preventivo, costringendo la controparte al contenzioso per l’esecuzione di un provvedimento che non presentava particolari elementi di discussione.
 
Si legge nella sentenza: “ dal momento che i tentativi di soluzione del caso, spiegati dagli attori per via stragiudiziale e per lungo tempo, sono stati ignorati ed anche in sede giudiziale si è sviluppata una netta contrapposizione alle loro richieste fino al punto di avanzare domanda di condanna nei loro confronti di risarcimento del danno ex art. 96 c.2 c.p.c. per responsabilità aggravata, e tutto ciò mentre nelle more del giudizio i due serbatoi sono stati rimossi e posizionati in luogo diverso laddove, evidentemente in modo pretestuoso, si era sostenuto non potessero essere collocati, questo Giudice trae il convincimento della piena fondatezza delle ragioni degli attori e la conclusione che la resistenza dei convenuti sia nel giudizio che fuori di esso costituisca, essa si, colpa sanzionabile nei loro confronti ex art. 96 c.p.c.”
 
Riecheggiano le amare considerazioni del Tribunale di Catania in un’altra recente sentenza "Rimozione amianto. Condannato l’inquilino che impediva l’accesso all’immobile", contro le tante “liti temerarie” che intasano le aule di giustizia:“ il nostro sistema giudiziario è gravato da un elevatissimo numero di cause, nella stragrande maggioranza delle quali almeno una delle parti è pienamente consapevole della infondatezza delle sue difese, ma agisce o resiste in giudizio perché trova vantaggioso impegnare la controparte in un contenzioso che costa a quella tempo e denaro (…) Questo contenzioso, il tempo e il denaro necessari a gestirlo avvantaggiano chi ha colpevolmente torto e assorbono una enorme quantità di risorse dell’amministrazione giudiziaria sottraendole al piccolo numero di controversie che davvero hanno bisogno di un giudice per essere risolte: quelle nelle quali vi è oggettiva incertezza e/o controvertibilità del fatto o del diritto.  Le cause che hanno bisogno di un giudice durano anni, perché i giudici sono impegnati con un elevatissimo numero di controversie che non avrebbero bisogno di loro per essere risolte. È necessario, dunque, rendere decisamente sconveniente per chi perde agire o resistere in giudizio nella consapevolezza di avere torto. A questo serve la sanzione di cui all’art. 96, 3° comma, c.p.c.”.
 
Si ringrazia l'avv. Comi, del Foro di Reggio Calabria, per averci fornito la sentenza.

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Scioglimento del condominio, se dalla scissione nasce una nuova compagine questa deve avere un proprio codice fiscale

Scioglimento del condominio, se dalla scissione nasce una nuova compagine questa deve avere un proprio codice fiscale

20/12/2013
di Alessandro Gallucci


Torniamo a trattare dell’argomento dello scioglimento del condominio per dare soluzione ad un quesito che ci è stato posto da una nostra lettrice.
 
“Sono proprietaria di una palazzina composta da 4 appartamenti + 2 negozi, tale palazzina è stata inclusa in un condominio con altre 2 palazzine per le quali vi è in comune il piano interrato ove si trovano i garage .
Ora trovando l'assistenza dell'amministratore inadeguata ho chiesto di estromettere dalla contabilità la palazzina pur rimanendo in partecipazione alle spese condominiali per quanto riguarda le parti comuni. In sostanza vorrei gestire autonomamente i pagamenti e le manutenzioni della palazzina di mia proprietà intestando le fatture al mio codice fiscale. E' possibile farlo ottenendo l'approvazione dei condomini delle altre proprietà mantenendo inalterato il nome del condominio?”
 
Scioglimento del condominio, quando è possibile?
 
Ad occuparsene sono gli articoli 61 e 62 delle disposizioni di attuazione del codice civile.
 
Il primo dei due recita:
 
Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato.
Lo scioglimento è deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal secondo comma dell'art. 1136 del codice, o e disposto dall'autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio della quale si chiede la separazione.
 
Questo è il caso del condominio che potrebbe sciogliersi creando autonomi edifici o edifici in condominio. Decisione assembleare o ricorso all’Autorità giudiziaria, queste le modalità di scioglimento.
 
E se, come nel caso sottopostoci dalla nostra lettrice, restano in comune alcune parti dell’edificio?
 
È il caso regolato dal successivo art. 62 disp. att. c.c. che recita:
 
“La disposizione del primo comma dell'articolo precedente si applica anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall'art. 1117 del codice.
Qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio deve essere deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal quinto comma dell'art. 1136 del codice stesso”.
 
Per quest’ultima ipotesi non è previsto ricorso all’Autorità Giudiziaria (cfr. Cass. 19 dicembre 2011 n. 27507).
 
Per come la nostra lettrice ci illustra il caso, però, sembrerebbe che si verta nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 62 disp. att. c.c. con conseguente applicazione a questa fattispecie della possibilità di decidere lo scioglimento con votazione assembleare (con le maggioranze prescritte per le innovazioni) o con ricorso all’Autorità Giudiziaria.
 
Una volta ottenuto quel risultato, il “nuovo condominio” deve dotarsi di un codice fiscale dedicato. Iscriversi all’anagrafe tributaria, infatti, è un obbligo di legge e l’inadempimento comporta l’irrogazioni di sanzioni (cfr. art. 13 d.p.r. n. 605/1973).
 
Quindi, gentile lettrice, quello che le possiamo dire è quanto segue: può ottenere, eventualmente anche per via giudiziale, lo scioglimento del condominio ma, poi, la nuova compagine deve dotarsi di un proprio codice fiscale pur non essendovi obbligo di nomina dell’amministratore (l’obbligo sorge raggiunti i nove condomini, art. 1129 c.c.).

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Fonte : condominioweb.com

giovedì 19 dicembre 2013

Mutuo contro affitto: la rata vince sempre nel lungo periodo, ma serve il capitale iniziale

Mutuo contro affitto: la rata vince sempre nel lungo periodo, ma serve il capitale iniziale


L'incertezza impantana. La scarsità di rassicurazioni sul futuro economico italiano, l'occupazione, la tassazione hanno indotto molte famiglie a rimandare decisioni di acquisto di beni durevoli e della casa; e molte altre decidono di stare alla finestra, magari optando per un affitto, anzichè un acquisto di un immobile. E resta la domanda clou degli ultimi anni: in definitiva, conviene indebitarsi con un mutuo e comprar casa o scegliere l'opzione della locazione? La risposta non è, e non potrebbe essere, univoca. I fattori da prendere in considerazione sono molti, ma iniziamo a mettere un punto fermo: oltre un certo numero di anni di riferimento temporale, sicuramente l'opzione acquisto presenta più vantaggi economici rispetto alla locazione. Un'asserzione che vale sul classico orizzonte dei 25 anni.
Per valutare la convenienza tra mutuo e affitto vanno considerate alcune variabili. Una è l'orizzonte temporale. Fondamentale poi è il capitale che viene richiesto come esborso iniziale, perchè nell'ipotesi affitto tale variabile viene considerata come investita in titoli di Stato. Anche l'importo della rata rispetto all'affitto ha il suo peso: per fare un raffronto corretto, in questa pagina – frutto dell'elaborazione richiesta dal Sole 24 Ore all'Ufficio studi di Tecnocasa – si ipotizza di investire in titoli di Stato l'eventuale differenza tra canone di locazione e rata di mutuo. Le condizioni reali di mercato sono dunque quelle che fanno la differenza.
Milano. Il primo esempio riguarda l'acquisto di un bilocale di circa 50 mq in una zona semicentrale. Nel caso dell'acquisto, si calcola un valore di 230mila euro e l'acquirente ricorre a un mutuo a tasso fisso di 25 anni che finanzia il 63% del valore, pagando una rata di mutuo di 872 euro. Possiede quindi un capitale a disposizione di 100mila euro e l'importo del mutuo comprende anche le spese legate all'acquisto dell'immobile. L'acquirente avrà anche un beneficio fiscale grazie alla detrazione degli interessi passivi, ma dovrà pagare le spese di gestione dell'immobile. Per calcolare il valore futuro dell'appartamento, l'Ufficio studi di Tecnocasa considera una rivalutazione annua pari alla media dell'indice Istat degli ultimi 10 anni. Nell'ipotesi dell'affitto, paga un canone mensile iniziale di 750 euro e si ipotizza che il capitale a disposizione, 100mila euro, venga investito in un BTp a 25 anni. L'affitto sarà aggiornato ogni anno in base all'indice Istat. L'inquilino dovrà pagare annualmente la registrazione del contratto di locazione. Anno per anno, si considera la differenza tra i canoni di locazione e le rate di mutuo. Per esempio, nel primo anno ci sarà una differenza positiva per il locatario (che spende 750 euro al mese contro una rata mensile di 872 euro per il proprietario). Tale differenza sarà investita in un conto corrente bancario ordinario con tasso di remunerazione dello 0,35% lordo. Allo stesso tasso si investe l'eventuale differenza tra i costi di gestione dell'immobile, i costi della locazione e il beneficio fiscale per la detrazione degli interessi. Dopo 25 anni, all'estinzione del mutuo, il proprietario avrà un guadagno di 110.794 euro (valore futuro dell'immobile meno le rate del mutuo) mentre l'inquilino una perdita di 28.973 euro (capitale investito meno canoni di locazione più eventuale differenza mutuo/canone e altri costi-benefici). Tutti gli altri esempi seguono la stessa metodologia, ma cambiano i dati di partenza. Nel caso del trilocale a Milano, l'immobile costa 400mila euro, il capitale a disposizione è di 180mila euro e la rata mensile di mutuo di 1.741 euro, mentre l'affitto è pari a 1.150 euro: il guadagno finale per il proprietario sarà di 206.112 euro, per l'inquilino di 71.555 euro.
Roma. Il bilocale romano costa 380mila euro, il capitale iniziale a disposizione è di 190mila euro, il mutuo di 1.293 euro e l'affitto di 1.000 euro.
Napoli. Il bilocale di Napoli costa 170mila €, il capitale iniziale è di 60mila, il mutuo di 732 e l'affitto di 650: il proprietario alla fine guadagnerà 55.685, l'inquilino ne perderà 107.065. «In questo caso pesa il fatto che il capitale iniziale è molto basso e quindi, nell'ipotesi affitto, il beneficio dell'investimento in titoli esiguo», spiega Fabiana Miglioli, responsabile dell'Ufficio studi di Tecnocasa. Per il trilocale, si ipotizza un valore dell'immobile di 270mila euro, un capitale a disposizione di 125mila, una rata mutuo di 984 e un affitto di 800.
Torino. Nel caso di Torino, l'appartamento costa 118mila euro e il capitale disponibile è di 40mila euro, con una rata mutuo di 525 euro e un affitto di 475 euro: il proprietario in questo caso, dopo 25 anni, avrà guadagnato 33.484 euro, l'inquilino ne avrà persi 89.770.
Fonte : Casa24Plus da L'ESPERTO RISPONDE 

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