sabato 26 luglio 2014

Arriva il «solar-sharing»: investire nel fotovoltaico per condividere l'energia a distanza

Arriva il «solar-sharing»: investire nel fotovoltaico per condividere l'energia a distanza

  • 25 luglio 2014
di Dario Aquaro
(Olycom)
(Olycom)
L'unione fa la forza (dell'investimento) e rappresenta spesso una via obbligata. Per quanto attraente sia l'idea di produrre energia rinnovabile, pulita, tagliare le spese elettriche e rendersi così in parte autonomi, non sempre è possibile installare in casa un impianto. Se pensiamo al fotovoltaico, si possono incontrare ostacoli di tipo organizzativo come, nei condomini, la difficoltà a raggiungere un accordo in assemblea; o di carattere pratico, perché l'edificio è magari sottoposto a vincoli paesaggistici, ha un tetto mal esposto o con un'inclinazione svantaggiosa. Situazioni che si presentano soprattutto nelle città.
Le cooperative energetiche
Un modo per ovviare a questi freni è il modello di investimento delle coop energetiche: gruppi di cittadini che si mettono insieme per acquistare un impianto fotovoltaico con cui autoprodurre energia e coprire il fabbisogno.
Parlando di cooperative si pensa subito alla categoria di quelle "storiche", nata oltre un secolo fa per assicurare il servizio in zone marginali, a bassa densità di popolazione (oggi in Italia ci sono 77 cooperative e consorzi storici, secondo l'Osservatorio sulla cooperazione elettrica dell'arco alpino).
Un'altra "ondata" di cooperative, ancora piccola ma in espansione, si è vista invece negli ultimi anni «e si compone di iniziative locali, legate al mondo dei gruppi di acquisto solidali ma non solo», racconta Gabriele Nicolis, direttore marketing di ForGreen, società che sviluppa soluzioni nel settore delle energie rinnovabili. «Una decina di realtà territoriali tra cui la cooperativa Energyland, a Verona, che abbiamo inaugurato nel 2011 e che riunisce cento famiglie del luogo». Quel progetto con impianto da 1 MW sta dando frutti e ForGreen, in collaborazione con LifeGate, network di comunicazione per lo sviluppo sostenibile, ha quindi deciso di avanzare un altro programma: un po' diverso perché va a rompere i lacci territoriali.
Il fotovoltaico «social»
Si chiama SolarShare e presenta «il primo progetto italiano di cooperativa (WeForGreen, ndr) aperta a tutti, indipendentemente dall'ubicazione. Persone di città differenti potranno unirsi e condividere energia prodotta dal sole», afferma Stefano Corti, direttore generale di LifeGate. WeForGreen propone l'acquisto di un impianto fotovoltaico da 1 MW già esistente, la Masseria del Sole, parco nei pressi di Lecce realizzato grazie alla bonifica di una discarica esaurita. «L'impianto non è stato ancora comprato – dice Nicolis, responsabile del progetto - ma c'è un accordo di closing con un prezzo già fissato e timing preciso. Il costo (un milione di euro circa) è stato suddiviso in 500 quote, coperte già per un terzo: resta da completare entro ottobre la raccolta, che lascia ancora spazio a un ottantina di famiglie. Appena raggiunto il numero di adesioni necessario, si procederà a rilevare l'impianto. A quel punto il piano di business prevede di vendere l'energia a un grossista, operatore sul mercato dell'energia, e con i ricavi (inclusi gli incentivi del conto energia) pagare le bollette dei soci, a prezzi di borsa. È la cooperativa a occuparsi delle bollette, quindi con un controllo a monte; e a scegliere ogni anno il fornitore, tramite gara».
Il sistema delle quote
Ogni socio può comprare da una a sei quote, in base ai propri consumi, e ha diritto a un quantitativo di energia proporzionale alle quote possedute. E il fatto di essere slegati dal territorio implica che possa parteciparvi non solo il proprietario di casa ma anche chi vive in affitto, basta che sia intestatario di un contatore: in caso di trasferimento, porterà l'offerta nella nuova abitazione. Ma quante quote di fotovoltaico social servono a una famiglia? Per un fabbisogno medio annuo di 2.700 kWh, circa 500 euro, si ha bisogno di tre quote, per un investimento pari a seimila euro che rientra quindi dopo il decimo anno. «L'impianto fornirà l'elettricità necessaria a soddisfare le richieste dei soci per un periodo di 17 anni, durante il quale fruirà del conto energia. Se poi alla chiusura del sistema incentivante a livello economico la cooperativa non sta più in piedi – spiega Nicolis - si scioglie, cede l'impianto e il capitale investito torna ai soci». Considerazioni sulla resa dell'investimento saranno fatte anche qualora diventasse legge lo "spalma incentivi" che, nella formulazione del decreto pubblicato in Gazzetta, prevede per gli impianti fotovoltaici sopra i 200 kW di potenza, dal primo gennaio 2015, tariffe rimodulate su 24 anni anziché su venti.
Le Energy Community
Al di là degli aspetti specifici del progetto WeForGreen, del fotovoltaico condiviso senza barriere territoriali, va comunque diffondendosi il concetto di Energy Community: utenze energetiche che decidono di fare scelte comuni per soddisfare il fabbisogno energetico e massimizzare i benefici di un approccio "collegiale". Uno dei principali elementi dell'evoluzione del sistema elettrico verso la Smart Grid, come sottolinea l'ultimo Report dedicato al tema dall'Energy & Strategy Group del Politecnico di Milano. «Quello delle cooperative energetiche – commenta Nicolis - può essere un anello importante del tema Smart Grid, che ha una sua complessità tecnica e tecnologica. Nel nostro caso, guardiamo con interesse alle esperienze consolidate nei paesi del nord Europa». In Belgio ad esempio, dove la cooperativa Ecopower conta oltre 45mila soci, 26MW di impianti installati e 95milioni di chilowattora prodotti. O in Germania, dove 80mila famiglie partecipano a cooperative energetiche che detengono oggi circa il 50% della capacità produttiva di energia da fonte rinnovabile.
FONTE : CASA24PLUS

venerdì 25 luglio 2014

PRIMA CASA DI UN CONIUGE: I BENEFICI SUL MUTUO

PRIMA CASA DI UN CONIUGE: I BENEFICI SUL MUTUO

Due coniugi, A e B, in separazione dei beni, vivono nella casa di proprietà al 100% di A, acquistata prima del matrimonio. Ora il coniuge B vorrebbe acquistare un piccolo appartamento (sua prima casa) sito nel comune di residenza, dove vorrebbe far stare, in comodato gratuito, i suoi genitori. Per egffettuare l'acquisto, ha bisogno di stipulare un mutuo ipotecario.L'imposta sostitutiva da pagare per il mutuo è dello 0,25 per cento? Gli interessi sul mutuo possono essere detratti dal coniuge B nella sua dichiarazione dei redditi? Se deve anche ristrutturare l'appartamento, B deve procedere prima di darlo in comodato ai genitori, per fruire delle detrazioni del 50% o del 65% a seconda dei lavori?
Il contribuente, che non beneficia già della detrazione degli interessi passivi in relazione all’immobile da egli adibito a propria abitazione principale, ha il diritto a conseguire la detrazione degli interessi derivanti dal mutuo stipulato per l’acquisto dell’immobile da destinare ad abitazione principale di un familiare (nello specifico, i genitori), sempre che ricorrano le ulteriori condizioni previste dalla lettera b, comma 1, dell'articolo 15 del Tuir (acquisto dell’immobile effettuato entro un anno precedente o successivo alla stipula del mutuo, e utilizzo come abitazione principale entro un anno dall’acquisto stesso).La detrazione delle spese, ex articolo 16-bis del Tuir, sostenute per la ristrutturazione dell’immobile, spetta in via di principio al contribuente che le sostiene e, pertanto, a nulla rileva in proposito il momento in cui i genitori dello stesso entrano nella disponibilità dell’abitazione come comodatari.Compete l’aliquota dello 0,25 per cento, a titolo di imposta sostitutiva sul mutuo bancario, se l’immobile è stato acquistato con l’agevolazione "prima casa" (da non confondere con il significato e i relativi presupposti di "abitazione principale", rilevanti in materia reddituale), prevista ai fini dell’imposizione indiretta
FONTE : CASA24PLUS

Affitti: Fondo inquilini morosi, chi, come e quando può accedervi

Affitti: Fondo inquilini morosi, chi, 

come e quando può accedervi

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Via libera al Fondo inquilini morosi incolpevoli che prevede l'erogazione di un contributo di 8mila euro.

fondo affitti morosità incolpevole
Stanziato il Fondo affitti 2014 per gliinquilini morosi che non riescono a pagare i canoni di locazione, con un contributo pari a 8mila euro massimo. Ecco chi sono i soggetti che possono chiederne l'erogazione e a chi rivolgersi per avere maggiori informazioni.

Fondo affitti 2014: chi sono gli inquilini morosi incolpevoli

Via libera allo stanziamento delle risorse per ilFondo Affitti per gli inquilini morosicoloro che vivono in affitto e non possono pagare i canoni di locazione per vari motivi che elencheremo avanti. Il Fondo affitti per lamorosità incolpevole ha come scopo proprio quello di sostenere gli affittuari che trovano difficoltà per vari motivi per pagare l'affitto di casa.
In particolare la morosità è incolpevole in 6 specifiche situazioni indicate dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti che sono:
  • CIG, cassa integrazione (ordinaria o straordinaria) che comporta una sostanziale riduzione del reddito;
  • Licenziamento per motivi non imputabili all'affittuario
  • accordi aziendali o sindacali con consistente riduzione dell'orario di lavoro
  • cessazione di attività libero-professionali o di imprese registrate, per causa di forza maggiore
  • mancato rinnovo del contratto atipico
  • infortunio, malattia grave, decesso di un componente del nucleo familiare che abbia comportato o la riduzione del reddito complessivo del nucleo medesimo o la necessità dell'impiego di parte notevole del reddito per fronteggiare rilevanti spese mediche e assistenziali.

Bandi comunali

Il Governo ha distribuito le risorse alle Regioni che le distribuiranno ai Comuni che dovranno provvedere con appositi bandi ad informare gli inquilini che si trovano in una delle situazioni poc'anzi indicate, a fare domanda di accesso al Fondo affitti. Il contributo economico che verrà stanziato avrà come tetto massimo 8mila euro. Tutti i requisiti ed eventuali criteri di priorità dovranno essere decisi dai singoli Comuni che dovranno affiggere avvisi pubblici nel Municipio e nei loro siti istituzionali.
FONTE : SuperMoney

Carcere per l'amministratore che non riconsegna i documenti condominiali

Doppio reato se la restituzione era stata disposta con ordinanza del Tribunale.

Carcere per l'amministratore che non riconsegna i documenti condominiali

23/07/2014

La Cassazione non fa sconti: la mancata restituzione è appropriazione indebita aggravata.Un amministratore di condominio palermitano,condannato in primo grado ed in appello per essersi rifiutato di restituire i documenti contabili inerenti all'amministrazione di un condominio, si rivolgeva in Cassazione per ottenere l'assoluzione dai reati addebitatigli: il ricorso è stato però respinto e l'amministratore condannato anche alle spese processuali dalla Seconda Sezione Penale della Cassazione che, con la sentenza n. 31192 del 16/07/2014 ha infatti confermato la sua responsabilità per entrambi i reati contestati, ossiaappropriazione indebita aggravata (artt. 646 e 61 n. 7 cod. pen.) e mancata esecuzione di un provvedimento giurisdizionale (art. 388 co. 2 cod. pen.). Sì, proprio così: due reati.
Innanzitutto appropriazione indebita, poiché la mancata restituzione dei documenti relativi all'amministrazione di un condominio, come più volte ricordato dai Giudici di Legittimità (su tutte Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 29451 del 10/07/2013 e Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 40906 del 18/10/2012), integra appunto gli estremi di tale reato. Per di più nella forma aggravata di cui all'art. 61 cod. pen., perché commessa con “abuso di relazioni originate da prestazione d'opera” (Cass. Penale, Sez. VI, sent. n. 36022 del 05/10/2011: ce ne siamo già occupati E' punibile per appropriazione indebita la mancata restituzione della documentazione da parte dell'amministratore uscente.
Ma nel caso in questione al reato di cui all'art. 646 cod. pen. se ne aggiunge un altro: quello previsto e punito con la reclusione fino a 3 anni dall'art. 388 co. 2 cod. pen.
Il Giudice ordina la restituzione dei documenti: non obbedire è un reato. Ed invero, laddove alla mancata restituzione dei documenti segua (insieme o in alternativa ad una denuncia per appropriazione indebita) un ricorso al Giudice Civile in via d'urgenza per ottenere un provvedimento che imponga all'ex amministratore di riconsegnare i documenti in suo possesso, la disubbidienza a tale provvedimento costituirà un reato autonomo che si aggiungerà (anche in termine di pena…) a quello già commesso di appropriazione indebita.
La Cassazione, infatti, ribadendo un orientamento costante e risalente sino al 1987 (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 2908 del 08/10/1987), ha ricordato come “rientrano tra i provvedimenti cautelari del giudice civile la cui dolosa inottemperanza dà luogo a responsabilità penale tutti i provvedimenti cautelari previsti nel libro IV del codice di procedura civile, e quindi non soltanto quelli tipici, maanche quello atipico adottato ex art. 700 c.p.c. (Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 31192 del 16/07/2014).
Disobbedire ad un provvedimento giurisdizionale è un reato, quindi, ma solo quando la mancata esecuzione spontanea renda ineseguibile quel provvedimento come nel caso di specie, dal momento che l'obbligo di restituzione dei documenti non poteva essere diversamente eseguito, neppure coattivamente, senza la spontanea collaborazione dell'ex amministratore (Cass. Pen., SS.UU., sent. n. 36692 del 27/09/2007).
Il reato scatta quando l'ordinanza tuteli la proprietà, il possesso od il credito. Affinché la mancata esecuzione al provvedimento del Giudice Civile costituisca il reato di cui all'art. 388 co. 2 cod. pen. è infine necessario che il ricorso civile miri a tutelare la proprietà o il possesso o, ancora, il credito: i documenti, quindi, di cui si chiede la restituzione devono essere necessari alla tutela di uno di questi tre diritti.
Orbene, i documenti contabili sono indispensabili a tutelare la proprietà o il possesso di un condominio? La risposta della Cassazione è assolutamente affermativa, “… pacifico essendo che l'ordine (non osservato) di consegna della documentazione contabile inerente all'amministrazione di un condominio incide sulla proprietà condominiale, impedendone la corretta amministrazione” (Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 31192 del 16/07/2014).
È cioè impossibile amministrare correttamente un complesso condominiale (e quindi occuparsi della sua proprietà) senza i documenti contabili inerenti la sua precedente gestione per cui la mancata restituzione di tali documenti, nonostante sia stata disposta in via d'urgenza dal giudice cautelare, integra gli estremi del reato di cui all'art. 388 co. 2 cod. pen.
Non esistono scuse: il rifiuto è ingiustificabile. Ma ci sono dei motivi per i quali l'ex amministratore potrebbe a ragione rifiutare la restituzione dei documenti? Anche dopo l'ordine disposto dal Giudice?
No, no ne esistono: la mancata restituzione è, secondo i Giudici di Piazza Cavour, “sintomatica del fatto che egli abbia un preciso interesse a non consentire una ricostruzione della sua gestione patrimoniale”.
Inoltre tale interesse sottende al perseguimento di una “specifica utilità”, che è insita in tale comportamento omissivo e cui corrisponde il dolo specifico (“per procurare un ingiusto profitto”) richiesto dall'art. 646 cod. pen. affinché l'appropriazione di un bene integri gli estremi del reato.
Occorrerà quindi prestare molta attenzione ai provvedimenti dei giudici e rispettarli (come peraltro dovrebbe essere normale in un Paese civile), anche quando non si condividono e nonostante si ritenga di essere dalla parte del giusto, evitando ostruzionismi esasperati e barricate per motivi di principio o ripicca: le liti private sono una cosa, il rispetto della giustizia un'altra.

  • Corte di Cassazione, sez. II Penale, 16 luglio 2014, n. 31192


Fonte : condominioweb.com 

Partecipazione all'assemblea del nuovo proprietario per conto del venditore, prepararsi bene per evitare il peggio

Partecipazione all'assemblea del nuovo proprietario per conto del venditore, prepararsi bene per evitare il peggio

23/07/2014
Non vogliamo diffondere inutili allarmi – tra l'altro quanto andremo ad affrontare non getta le radici in recenti sentenze – ma parlando delle assemblee condominiali che avvengono a cavallo di una compravendita, pare utile sottolineare alcuni aspetti di rilevante importanza per il compratore com'anche per chi vende l'unità immobiliare.
Portiamo un esempio, per così dire, classico.
Tizio amministratore del condominio Alfa convoca l'assemblea per l'approvazione del rendiconto di gestione dell'anno appena trascorso e per l'approvazione del preventivo per quello in essere.
L'amministratore, tra gli altri, convoca Caio, il quale è divenuto condomino solamente sul finire dell'anno precedente, avendo comprato un'unità immobiliare da Sempronio.
Caio, quindi, per molti versi è chiamato a deliberare su alcune vicende che non l'hanno minimamente riguardato in quanto egli non partecipava alla compagine. Queste vicende, tuttavia, adesso lo interessano non foss'altro perché ai sensi dell'art. 63, quarto comma, disp. att. c.c. chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente. In questo contesto è prassi – anche solamente per il fatto che contro l'attuale condomino può essere chiesto l'emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo – che l'amministratore del condominio agisca contro chi è condomino al momento della deliberazione.
Insomma: s'è vero che il nuovo proprietario ha diritto di rivalsa sul precedente, è altrettanto vero che è bene che sappia cosa fare perché sarà lui per primo a risponderne verso il condominio. Non solo per questo: il neo-condomino andando a deliberare per conto del suo dante causa, assume una serie di responsabilità anche verso di lui. (Le spese condominiali , cosa paga il venditore e il compratore.)
La Cassazione, quando è stata chiamata a deliberare sull'argomento, ha ricordato che “in tema di condominio di edificio, in caso di alienazione di un piano o di porzione di un piano, dal momento in cui il trasferimento venga reso noto al condominio, lo status di condomino appartiene all'acquirente, e pertanto soltanto quest'ultimo è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnarne le deliberazioni, mentre il venditore, che non è più legittimato a partecipare direttamente alle assemblee condominiali, può far valere le sue ragioni connesse al pagamento dei contributi (relativi all'anno in corso e a quello precedente, ai sensi dell'art. 63 disp. att. cod. civ.) attraverso l'acquirente che gli è subentrato, e per il quale, anche in relazione al vincolo di solidarietà, si configura una gestione di affari non rappresentativa che importa obbligazioni analoghe a quelle derivanti da un mandato, e fra queste quella di partecipare alle assemblee condominiali e far valere in merito anche le ragioni del suo dante causa (Cass. n. 9/1990)” (così Cass. 9 settembre 2008 n. 23345).
Il codice civile, agli artt. 2028 e ss., disciplina la gestione di affari rimandando anche alle norme sul mandato.
In buona sostanza per evitare ogni genere di guaio, è bene che il neo proprietario:
a) tenga informato il suo dante causa del fatto che si terrà l'assemblea eventualmente richiedendogli se vuole partecipare per delega;
b) in caso contrario farsi darsi precise istruzioni (meglio se per iscritto) sul da farsi rispetto agli argomenti di interesse del venditore.


Fonte : condominioweb.com 

Le nuove persiane installate sono «invadenti» ed «impallano» la veduta al vicino. Vanno sostituite.

Ecco perchè se le nuove persiane sono invadenti vanno rimosse

Le nuove persiane installate sono «invadenti» ed «impallano» la veduta al vicino. Vanno sostituite.

23/07/2014
Le ante a compasso non vanno bene, si deve ritornare al modello a libro.
Le servitù di veduta. Al fine di contemperare i reciproci interessi tra i proprietari dei fondi confinanti, il legislatore ai sensi degli articoli 905 e seguenti del codice civile, ha imposto una determinata distanza per l'apertura delle vedute, ed ha tutelato anche chi ha aperto la veduta, imponendo al vicino di non ostruire la veduta stessa. Secondo il principio affermato dal codice civile colui che esegue nuove opere deve rispettare la veduta esistente sull'immobile vicino, anche qualora essa sia stata aperta a titolo di servitù, a distanza inferiore al limite legale di tre metri ex art. 907 cod. civ. Secondo la Cassazione colui che esegue le nuove opere, è obbligato a non ledere tale diritto, mentre può legittimamente eseguire sulla sua proprietà tutte le innovazioni che con esso non contrastino. (Cass. 03/07/1999, n. 6897). Sempre in riferimento alla servitù di veduta, si deve tener conto non solo dell'attuale destinazione o situazione ma anche delle normali possibilità di ulteriore sviluppo e sfruttamento, poiché il divieto di innovazioni si riferisce a pregiudizi non solo attuali ma anche potenziali, dovendo il giudice di merito accertare se le diverse modalità di esercizio della servitù si risolvano in un'intensificazione dell'onere gravante sul fondo servente, sempreché al proprietario di questo ne derivi un danno in termini economicamente apprezzabili, da valutare con riferimento alla destinazione attuale del fondo servente ed anche con riguardo ad altre possibili utilizzazioni dello stesso. (In un caso è stato escluso l'aggravamento della servitù di veduta esercitata attraverso finestre sul rilievo che nessun pregiudizio era derivato al proprietario del fondo servente dalle trasformazioni apportate dal proprietario del fondo dominante, atteso che il davanzale era stato riportato alle caratteristiche originali, il parapetto in mattoni era stato sostituito con una ringhiera e fioraie ed inoltre erano state aggiunte le persiane). (Cass. 11/01/2006, n. 209).
La fattispecie analizzata. In primo grado il Tribunale, respingendo le eccezioni pregiudiziali della convenuta, condannava la medesima a rimuove ogni ostacolo (paletto di sostegno per le piante) che impedivano l'apertura completa delle ante della finestra della parte attrice. La convenuta propone appello sostenendo che il diritto di veduta non includeva la facoltà di aprire a compasso le ante sullo spazio aereo sovrastante al fondo servente. La Corte di Appello, osserva che la proprietà della ricorrente era gravata da servitù di veduta in favore dell'unità immobiliare di proprietà della vicina, e per tale motivo ha ritenuto congrua la decisione di rimuovere il paletto in ferro e ogni altro ostacolo che impedivano l'apertura delle ante della finestra dell'attrice e l'ordine per il futuro di non porre ostacoli all'apertura delle finestre. Quindi devono essere rimossi gli ostacoli che impediscono l'apertura totale delle finestre del vicino di casa.(Corte d'appello di Firenze con la sentenza34/2014). (L'installazione di una persiana nel cortile non configura turbativa del possesso.)
Tutto dipende delle tipologia delle persiane. Recentemente un caso analogo è stato anche affrontato dal Tribunale di Cassino (Ord. del 03 aprile 2014). Nel caso di specie veniva configurata una potenziale azione di spoglio derivante dalla mera mutazione dello stato di fatto. Ma in quella circostanza, il Tribunale di Cassino, ha applicato il seguente principio giurisprudenziale: “ le persiane, ed in genere gli infissi di cui sono normalmente dotate le finestre, non determinano, anche quando si aprono all'esterno, un aggravamento della servitù di veduta, poiché esse, quando sono chiuse, la impediscono o la limitano, e quando sono aperte, non la rendono più penetrante; il loro ruotare sui cardini, quando non sono del tipo a tendina, non arreca poi pregiudizio al proprietario del fondo servente, salvo che il loro raggio d'azione superi la distanza di tre metri, che egli deve rispettare, per consentire, per l'appunto, l'esercizio della servitù (Cass. 8930/2000)”. Nella fattispecie esaminata, quindi, le persiane non determinano, alla stregua di tale sentenza, un aggravamento della servitù di veduta, in quanto il mero ruotare sui cardini non muta il raggio di azione dell'esercizio della servitù di veduta. Invece, nel caso analizzato dalla Corte di Appello di Firenze, il titolare dell'immobile gravato da servitù verso il confinante, deve provvedere alla sostituzione delle ante a compasso tornando al modello a libro, perché impediscono l'apertura totale delle finestre del vicino.
Precedenti. La Cassazione (sentenza del 11/01/2006 n.209) aveva affermato che in tema di servitù, l'aggravamento dell'esercizio in dipendenza della trasformazione operata sul fondo dominante va verificato accertando se l'innovazione abbia alterato l'originario rapporto con il fondo servente e se il sacrificio imposto sia maggiore rispetto a quello originariamente previsto, dovendosi valutare l'opera non in sé stessa, come risultato di un'attività consentita o non consentita nella normale esplicazione o meno dei poteri dominicali, bensì per le implicazioni che ne derivano a carico del fondo assoggettato. Con riferimento alla servitù di veduta, deve, pertanto, tenersi conto non solo dell'attuale destinazione o situazione ma anche delle normali possibilità di ulteriore sviluppo e sfruttamento, come la trasformazione del tetto in terrazzo, la sopraelevazione ed ogni altra opera che renda possibile la veduta medesima, poiché il divieto di innovazioni si riferisce a pregiudizi non solo attuali ma anche potenziali, dovendo il giudice di merito accertare se le diverse modalità di esercizio della servitù si risolvano in un'intensificazione dell'onere gravante sul fondo servente, sempreché al proprietario di questo ne derivi un danno in termini economicamente apprezzabili, da valutare con riferimento alla destinazione attuale del fondo servente ed anche con riguardo ad altre possibili utilizzazioni dello stesso. (Nella specie è stato escluso l'aggravamento della servitù di veduta esercitata attraverso finestre sul rilievo che nessun pregiudizio era derivato al proprietario del fondo servente dalle trasformazioni apportate dal proprietario del fondo dominante, atteso che il davanzale era stato riportato alle caratteristiche originali, il parapetto in mattoni era stato sostituito con una ringhiera e fioraie ed inoltre erano state aggiunte le persiane).
Corte d'appello di Firenze n° 34 del 09-01-2014


Fonte : condominioweb.com 

martedì 22 luglio 2014

La pignorabilità del conto corrente condominiale. La scelta tra solidarietà e parziarietà nell'obbligazione condominiale alla luce dei recenti orientamenti

Di nuovo sulla pignorabilità del conto corrente condominiale

La pignorabilità del conto corrente condominiale. La scelta tra solidarietà e parziarietà nell'obbligazione condominiale alla luce dei recenti orientamenti

21/07/2014
Il contratto, stipulato dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei condomini rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei rappresentati.
Per determinare i principi di diritto, che regolano le obbligazioni (contrattuali) unitarie le quali vincolano la pluralità di soggetti passivi - i condomini - occorre muovere dal (rinnegato) fondamento della solidarietà.
L'assunto è che la solidarietà passiva scaturisca dalla contestuale presenza di diversi requisiti, in difetto dei quali - e di una precisa disposizione di legge -, il criterio non si applica, non essendo sufficiente la comunanza del debito tra la pluralità dei debitori e l'identica causa dell'obbligazione.
Il principio della solidarietà (passiva) va poi contemperato con quello della divisibilità stabilito dall'art. 1314 cod. civ., secondo cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell'obbligazione, ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte.
Ora, posto che il condominio non raffigura un "ente di gestione", ma una organizzazione pluralistica e l'amministratore rappresenta immediatamente i singoli partecipanti, nei limiti del mandato conferito secondo le quote di ciascuno, ne discende che l'obbligazione contratta dallo stesso non sia solidale ma parziaria (Corte di Cassazione, sezioni Unite, Sentenza n. 9148/2008 dell' 08 aprile 2008).
D'altro canto e a conferma di quanto sopra assunto, si richiamano i seguenti addentellati normativi:
1) l'art. 1118 c.c. (novellato dall'art. 3 della riforma) il quale stabilisce che il diritto dei partecipanti sulla parti comuni è in proporzione al valore della propria unità immobiliare (non in luogo di una persona giuridica autonoma);
2) l'art. 1123, per il quale le spese sono sostenute direttamente dai condomini (e non da un ente di gestione);
3) l'art. 1131 che attribuisce all'amministratore la rappresentanza “dei partecipanti” e non del condominio come ente autonomo e distinto;
4) ed, infine l'art. 1132 che prevede il dissenso dei condomini rispetto alle liti, per separare la propria responsabilità dal condominio (fattispecie non ipotizzabile in tema di diritto societario).
Tutto ciò vuol dire che, conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individuale nei confronti dei singoli condòmini, in proporzione alla rispettiva quota comune.
L'affermazione è stata però mitigata dal principio della “solidarietà sussidiaria”,per cui: “I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini” (Art. 63 disp. att. cod. civ.).
L'onere di preventiva escussione comporta non soltanto il dovere del terzo di iniziare le azioni contro il moroso, ma anche di continuarle con diligenza e buona fede; ossia, dimostrata l'incapienza del condomino moroso il creditore sarà in grado di procedere nei confronti dell'altro compartecipe, alla stregua – e con i dovuti accorgimenti fattuali –di quanto stabilito dall'art. 2304 cod. civ. (“I creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dei singoli soci, se non dopo l'escussione del patrimonio sociale”).
Pertanto, sotto tale profilo è sempre consigliabile, quando si agisce in giudizio contro un Condominio per recuperare un debito pecuniario, spiegare anche domanda volta alla predeterminazione esatta e certa delle quote di ripartizione interna del debito condominiale, più che attendere in seguito (alla formazione del titolo esecutivo) la lista dei condòmini morosi (vedi Elenco condomini morosi – Richiesta del creditore del condominio – Danno da mancata/ritardata consegna - Sussistenza)
In effetti:"la sentenza di condanna, al pagamento di una somma, di un condominio che sia stato in giudizio in persona del solo amministratore, ove non specifichi la misura della prestazione dovuta da ciascun condomino, ha nei confronti dei singoli condomini valore di pronuncia di accertamento dell'esistenza del credito (an debeatur) e non anche quello di liquidazione dello stessoLa situazione di incertezza sulla misura di cui ciascun condomino è tenuto a rispondere verso il creditore del debito giudizialmente accertato, costringe il creditore ad invocare una ulteriore pronuncia, che, determinando la ripartizione pro quota ed i condomini morosi per la quantificazione della prestazione dovuta da ciascun condomino, possa valere come titolo idoneo a promuovere correttamente l'esecuzione forzata contro singoli condomini" (Cass. Civ. nr 113 del 05 maggio 1966).
Per converso, sono fuori, secondo l'esplicita motivazione delle Sezioni Unite, dalla parziarietà le obbligazioni extracontrattuali che restano assoggettate al principio della solidarietà passiva, di cui agli artt. 2051 e 2055 c.c., come già riconosciuto da più pronunce dei Giudici di Merito (ex multis, Tribunale di Roma 23 settembre 2008).
Quali beni sono pignorabili? Così inquadrato, dal punto di vista giuridico, l'obbligazione condominiale di natura contrattuale verifichiamo, adesso e dal punto di vista esecutivo, quali sono i beni condominiali suscettibili di pignoramento, o meno.
Certamente, tra questi non vi figurano i beni elencati dall'articolo 1117 cod. civ.., stante il vincolo funzionale a cui essi sono “forzosamente” assoggettati (ex multis, Cass. Civ., Sezione 3^ 4/9/1985 n° 4612 .
Ciò non toglie che un bene condominiale che abbia perso la sua destinazione finale (comune) sia pignorabile. Si pensi, all'alloggio portiere, ove il servizio sia stato dismesso, o al vano tecnico che conteneva l'autoclave, poi rimossa e allocata in altro sito. In questi casi, però, occorrerà pur procedere ai sensi dell'art. 599 c.p.c., per cui “…del pignoramento è notificato avviso, a cura del creditore pignorante, anche agli altri comproprietari, ai quali è fatto divieto di lasciare separare dal debitore la sua parte delle cose comuni senza ordine del giudice”.
A questo punto sorge spontanea una domanda: Il conto corrente condominiale: è pignorabile?
Sì! Almeno secondo un orientamento di merito che si sta sempre più diffondendo e consolidando presso i tribunali esecutivi della repubblica.
I provvedimenti. L'orientamento è in realtà risalente al 03 luglio 2009, data di emissione di un'Ordinanza del Tribunale di Catania, sezione esecuzioni mobiliari, con la quale furono ritenute pignorabili tutte le somme giacenti sul conto corrente postale intestato al Condominio, tanto che esse sono state, interamente, assegnate al creditore procedente.
Per arrivare ad una simile conclusione, il Giudice etneo affermò – più o meno esplicitamente -, da una parte, l'esistenza di una soggettività giuridica autonoma, costituita dal patrimonio separato da quello dei partecipanti, in capo al Condominio, e, dall'altra parte, la reviviscenza del principio della solidarietà tra i condòmini.
L'argomentazione addotta, col tempo, si è sempre più affinata, fino a completarsi con i richiami alle norme del codice civile, per come recentemente riformate dal legislatore.
Il Tribunale di Pescara, con ordinanza dell'08 maggio 2014 , ha argomentato che il beneficio di escussione disposto dal novellato art. 63 disp. att. cod. civ. sarebbe subordinato al tentativo infruttuoso da esperirsi nei soli confronti di altro condòmino. Ciò non priva il creditore di agire immediatamente contro il Condominio stesso. Ed invero: “…non trattandosi neppure di titolo azionato nei confronti dei condomini in regola con i pagamenti la cui obbligazione verso il terzo creditore rimasto insoddisfatto, ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c. 2° comma, sarebbe da intendere come di natura sussidiaria ed eventuale favorita dal beneficium excussionis avente ad oggetto le somme dovute dai condomini morosi- ma, si ribadisce, nei soli confronti del Condominio, va rilevato che nessuna norma stabilisce l'onere di preventiva escussione del condomino rispetto ad un'azione esecutiva validamente intrapresa nei confronti del Condominio. Diversamente argomentando la norma avrebbe sancito definitivamente la parziale impignorabilità del conto corrente condominiale, parziale in quanto subordinata alla escussione del condomino moroso, mentre la norma nulla dispone il tal senso.”
Il Tribunale di Reggio Emilia, con provvedimento del 18 maggio 2014, ha ritenuto parimenti pignorabile il conto corrente del condominio; perché “… alle somme presenti sul conto viene impresso un vincolo di destinazione che, al pari (sarebbe meglio dire, diversamente; n.d.a)delle parti comuni dell'edificio, determina l'elisione del legame giuridico tra i singoli condòmini e il Condominio”. In effetti, la gestione effettiva di un patrimonio, svincolato da quello dei singoli partecipanti, conduce a ritenere che: “ … il condominio si atteggi quale centro autonomo di imputazione di posizioni giuridiche” (vedi Ecco come è possibile pignorare il conto corrente condominiale).
Non da ultimo, il Tribunale di Milano con Ordinanza del 27 maggio 2014 ha confermato il superiore assunto, ulteriormente argomentato che sussiste un patrimonio del condominio, svincolato da quello dell'amministratore e dei condòmini, allorquando configuri come grave irregolarità di gestione quella per cui l'amministratore operi: “..secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri condomini”(art. 1129, comma 12, nr 4).
Il richiamo esplicito al “patrimonio del condominio” e/o al conseguente divieto della “confusione di cassa” è stato così interpretato come prova che il legislatore in realtà abbia inteso, mediamente,riconoscere la sussistenza di un'autonomia patrimoniale della compagine rispetto quella dell'amministratore, ovvero dei singoli condomini, da cui la relativa pignorabilità.
In conclusione. Sussistono in giurisprudenza due orientamenti tra loro contrastanti circa l'esatta configurazione giuridica e patrimoniale dell'istituto “Condominio degli edifici”, di cui al libro II, titolo VII, Capo II del codice civile., pur nella consapevolezza che nel testo della legge approvato dal Senato il 20.11.2012 si è confermato l'assunto per cui il Condominio non assume una personalità giuridica distinta dai condomini (come avviene invece in Francia, Olanda e Svizzera). Mentre il primo orientamento, che risale alle sezioni Unite del 2008, esclude – come logica conseguenza del ragionamento in esso sopito - la pignorabilità del conto corrente condominiale in virtù dell'affermata insussistenza giuridica e patrimoniale dell'ente di gestione, l'orientamento di recente conio – proclamato ed affermato dai tribunali aditi in via esecutiva (cioè in sede di opposizione all'esecuzione) - afferma, diversamente, che il condominio dispone di un patrimonio proprio, svincolato da quello dei singoli condomini, in quanto tale, suscettibile di essere pignorato autonomamente dal terzo creditore.
Tribunale di Milano Ordinanza del 27 maggio 2014


Fontecondominioweb.com 

Si possono effettuare lavori su parti comuni anche senza il consenso preventivo degli altri condòmini?

Quando è necessario il consenso degli altri condomini per l'esecuzione di opere sulle parti comuni dell'edificio.

Si possono effettuare lavori su parti comuni anche senza il consenso preventivo degli altri condòmini?

21/07/2014
di Ivan Meo 
Quando è necessario richiedere il consenso preventivo dell'assemblea condominiale. Partiamo da un presupposto: i giudici amministrativi hanno individuato nel consenso preventivo assembleare un momento partecipativo preliminare volto al rilascio di un assenso per la realizzazione di opere consistenti nella realizzazione di interventi edilizi su beni di proprietà condominiale. Tale assunto è stato ribadito da numerosi arresti giurisprudenziali: “la soprelevazione del tetto costituente copertura di tutto il condominio impone il rispetto delle garanzie partecipative del condominio stesso quale soggetto direttamente interessato dall'intervento assentito”(T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 17 maggio 2007, n. 800), mentre per quanto riguarda la realizzazione di opere comportanti modifica ai cavedi, stante la natura di parte comune degli stessi, sempre il T.A.R. Liguria, ha stabilito che occorre l'assenso da parte del condominio (T.A.R. Liguria Genova, sez. I, 17 giugno 2005, n. 916).
Sullo stesso filone interpretativo si schiera il TAR Campania, Napoli, che con sentenza del 29 marzo 2007, n. 2902, ha precisato che “nel caso di opere edilizie soggette a DIA che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è legittimo esigere il consenso degli stessi; tate consenso è tuttavia richiesto in forma esplicita qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato”.
Particolarmente interessanti, ai fini della nostra indagine, risultano due recenti pronunciamenti: il primo è stato emesso dal TAR Lombardia, Milano, che con sentenza dell'8 marzo 2007, n. 381, stabilisce che “poiché l'art 1102 c.c. consente a ciascun condomino di apportare le modificazioni necessarie al miglior godimento della cosa comune, senza alterarne la destinazione e senza impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, deve ritenersi che il singolo condomino sia legittimato a presentare in proprio una DIA, non essendo necessaria la contestuale sottoscrizione della richiesta da parte degli altri comproprietari, se gli interventi rientrano in tale facoltà”. Ancor più interessante risulta essere la sentenza emessa dal TAR Veneto, del 2 luglio 2007, n. 2139 che ha stabilito che “ove la realizzazione di opere in attuazione di una DIA interessino anche il condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la cui porzione immobiliare inerisce, concerne esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione in sede di esame della denuncia medesima e, di conseguenza, risulta illegittima la sospensione della DIA motivata dal mancato intervento di una autorizzazione condominiale in ordine ai lavori edilizi”. In altri termini, secondo il giudice veneto, il mancato assenso del condominio cui la porzione immobiliare inerisce e l'eventuale mancato rispetto della disciplina condominiale è questione che concerne le relazioni privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione. Però a differenti conclusioni non può indurre la considerazione che l'intervento in questione consiste nella realizzazione di un balcone in aggetto al muro perimetrale comune, di cui i ricorrenti non hanno la proprietà esclusiva. Invero, la porzione di muro perimetrale sulla quale si è chiesto dì inserire il balcone è quella che delimita la proprietà esclusiva degli stessi ricorrenti.
Orbene, può anche essere condiviso, in linea di principio, che quando si tratti di intervenire su di un bene che non sia di esclusiva proprietà del richiedente, la titolarità della porzione condominiale non sia sufficiente, da sola, a legittimare la richiesta dei titolo edilizio, in quanto la facoltà di eseguire opere sulla cosa comune ovvero di modificarla a proprie spese, si concreta con la compresenza dì elementi negativi desumibili dalla formula degli artt. 1122 e 1102 c.c. Però la il Tribunale, continua nella sua motivazione, precisando che l'accertamento di tali elementi negativi deve essere compiuto dall'Amministrazione soltanto sulla base di parametri oggettivi e tecnici, che si correlano alle norme tecniche e regolamentari che, nel territorio, disciplinano la realizzazione dell'opera.
Il caso di specie. Il caso analizzato dal giudice amministrativo pugliese (Tar Puglia sentenza 16 giugno 2014, n. 730) trae origine dall'impugnazione di un permesso di costruire rilasciato al proprietario di un appartamento sito al piano terra del condominio, il quale aveva presentato istanza edilizia per l'apertura di alcuni vani finestra sul muro perimetrale con ampliamento del vano porta. Si propone ricorso, denunciando la violazione della normativa civilistica in tema di condominio degli edifici, riverberatasi sulla legittimità del permesso di costruire rilasciato.
Il Tar, condividendo l'orientamento della Cassazione (sentenza del 20 febbraio 1997 n. 1554)che ammette la modifica da parte del singolo di parti comuni, purché tali modifiche non pregiudichino l'uso comune stabilisce che:
  • è possibile modificare di parti comuni, purché tali modifiche non pregiudicano l'uso della cosa comune;
  • la realizzazione di modifiche su parti comuni degli edifici è legittima anche in assenza del consenso degli altri condomini purché i lavori non sottraggano definitivamente il bene alla sua funzione condivisa;
  • i lavori effettuati non devono pregiudicare la stabilità, il decoro o alla sicurezza del fabbricato.
Nel caso di specie il TAR esclude che l'apertura dei vani finestre e l'ampliamento della porta abbia sottratto il muro perimetrale alla sua ordinaria funzione comune, per tali motivi non è necessaria l'autorizzazione preventiva da parte del condominio. Per tali ragioni il giudice amministrativo non riscontra nessuna violazione nei confronti delle norme civilistiche.
Conclusioni. Dal sistema interpretativo giurisprudenziale si ricava che l'assemblea rimane sempre il massimo organismo deliberativo del condominio. I poteri dell'assemblea condominiale riguardano anche la disciplina delle modificazioni e delle innovazioni della cosa comune. Questo implica riconoscere e di individuare l'ambito entro il quale è lecito sceglierne le modalità attuative dei singoli lavori da eseguire sulle parti comuni, che possono essere diverse tra loro. Il generale divieto di esecuzione di opere che arrechino danno alle parti comuni, ovvero determinino un pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio deve essere sempre applicato al caso di specie per cui non sempre è necessaria la preventiva autorizzazione dell'assemblea condominiale purché vengano rispettati determinati limiti.
Tar Puglia 16 giugno 2014, n. 730


Fonte : condominioweb.com 

Aumento del canone di locazione durante la durata del contratto tacitamente rinnovato. Il conduttore come deve comportarsi?

Ogni contraria pattuizione volta a stabilire un aumento del canone di locazione deve considerarsi palesemente nulla.

Aumento del canone di locazione durante la durata del contratto tacitamente rinnovato. Il conduttore come deve comportarsi?

22/07/2014
Avv. Leonarda Colucci
Una recente sentenza del Tribunale di Lecce fornisce una risposta esaustiva a tale domanda, chiarendo quali diritti può vantare il conduttore quando riceve una richiesta di aumento del canone di locazione riguardante un immobile adibito ad uso abitativo.
Il fatto. Dopo aver concesso in locazione un immobile i locatori decidono di chiedere un aumento dell'importo del canone di locazione ai conduttori. Ma i conduttori, consapevoli dell'illegittimità di tale richiesta si rivolgono, con ricorso ex art. 447 bis cpc, al giudice entro sei mesi dalla consegna dell'immobile, nel rispetto del termine previsto dall'art. 3 della legge n. 431/1998, ribadendo che il contratto in questione era stato regolarmente registrato ritenendo, inoltre, assolutamente illegittima la pretesa di aumento del canone di locazione avanzata da parte dei locatori poiché in palese contrasto rispetto a quanto pattuito dal contratto. Consapevoli dei propri diritti i conduttori chiedono che il Giudice disponga la restituzione, in loro favore, della somma indebitamente corrisposta ai locatori.
I locatori si costituiscono sostenendo che l'aumento del canone di locazione era stato deciso di comune accordo fra le parti e formulando, altresì, domanda riconvenzionale chiedendo la restituzione del deposito cauzionale a causa del grave deperimento dell'immobile locato. Come chiedere l'aumento dell'affitto
In merito. Dall'esame degli atti del giudizio e dalla documentazione prodotta da ricorrenti e resistenti il Giudice Unico del Tribunale di Lecce ha rilevato che il contratto in questione era stato stipulato tra i ricorrenti (conduttori) ed i resistenti (locatori) ed era stato regolarmente trascritto, e la durata del contratto controverso era stata fissata in quattro anni, e lo stesso contratto poteva considerarsi rinnovato per altri due anni in caso di mancata disdetta da parte del locatore, al termine di tale durata il contratto si sarebbe rinnovato di anno in anno salvo disdetta. Dalla semplice lettura del contratto il Giudice nella sentenza in questione ha constatato la palese violazione dei principi sanciti dalla legge che disciplina le locazioni di immobili ad uso abitativo (Legge n. 431/1998) che stabilisce per tali contratti una durata non inferiore ai quattro anni più quattro salvo disdetta.
Nel caso di specie decorsi i primi quattro anni, e precisamente nel maggio del 2005, il locatore con lettera raccomandata chiedeva ai conduttori un aumento del canone di locazione del 25% da corrispondersi dall'inizio dell'anno contrattuale.
Tale richiesta è stata contestata dai conduttori che, attraverso il giudizio conclusosi con la sentenza in commento, hanno rilevato l'illegittimità dell'aumento in quanto in contrasto con quanto sancito dalla legge n. 431/1998 all'art. 13 che ai primi due commi così recita “è nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato. Nei casi di nullità di cui al comma 1 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può chiedere la restituzione delle somme corrisposte in misura superiore al canone risultante dal contratto scritto e registrato”.
Nel caso in esame l'aumento del canone di locazione è stato richiesto dai locatori dopo quattro anni e cinquantasei giorni dal primo contratto che, non essendo intervenuta alcuna disdetta, si intendeva rinnovato alle medesime condizioni stabilite nell'originario contratto.
Analizzando nel dettaglio il contratto in questione il Giudice Unico del Tribunale di Lecce ha rilevato che le clausole dello stesso che dispongono un rinnovo contrattuale di durata inferiore a quattro anni devono considerarsi nulle in quanto in violazione di quanto previsto dalla legge (art. 2 legge n. 431/1998). Pertanto la durata del rapporto locatizio non può essere inferiore a quattro anni più quattro, ed una rinegoziazione delle condizioni contrattuali, e quindi anche dell'importo del canone, può avvenire solo dopo la seconda scadenza e quindi dopo otto anni dalla stipula del primo contratto che deve intendersi tacitamente rinnovato per altri quattro anni in caso di mancata disdetta.
La sentenza, inoltre, dando seguito a quanto sancito dalla legge più volte citata, evidenzia che grava sul locatore l'onere di comunicare al conduttore la rinegoziazione a nuove condizioni o la disdetta nei sei mesi anteriore all'ottavo anno ( seconda scadenza del primo contratto tacitamente rinnovato).
Dunque questo in altri termine vuol dire che ogni contraria pattuizione volta a stabilire un aumento del canone di locazione deve considerarsi palesemente nulla. Canone di locazione, niente aggiornamento ISTAT se non è il proprietario a domandarlo
In tal modo la sentenza in commento si allinea con l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in base al quale il diritto del conduttore a versare esclusivamente il canone pattuito ( assoggettato agli aggiornamenti Istat se previsti e richiesti dal locatore) al momento della stipula del contratto permane per tutta la durata del contratto, e tale diritto può essere fatto valere dal conduttore entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato (Cass. Civ. 07.02.2008 n. 2417).
La sentenza, applicando quanto sancito dalla legge che disciplina la locazione di immobili ad uso abitativo ed allineandosi all'orientamento della giurisprudenza di legittimità si conclude con la condanna dei locatori (resistenti) alla restituzione ai conduttori della somma pari all'aumento di canone indebitamente percepito. In buona sostanza, quindi, nessun aumento del canone può essere richiesto dal locatore al conduttore poiché contrario a quanto sancito dalla legge.
La sentenza, inoltre, facendo seguito alla richiesta dei resistenti (locatori) di decurtare dalla somma corrispondente all'aumento del canone di locazione, l'importo percepito a titolo di adeguamento del canone agli indici Istat, accende i riflettori sulle modalità attraverso le quali va richiesto l'adeguamento del canone di locazione. A tal riguardo, infatti, la pronuncia del Tribunale leccese ha evidenziato che il diritto del locatore ad ottenere l'adeguamento del canone agli indici Istat è subordinato al fatto che quest'ultimo ne abbia fatto richiesta al conduttore tramite lettera raccomandata tramite la quale deve essere richiesta l'adeguamento agli indici Istat per l'anno successivo. Pertanto nessuna richiesta di aggiornamento del canone di locazione agli indici Istat può essere richiesta dal locatore per gli anni già trascorsi, poiché l'adeguamento del canone agli indici Istat deve essere richiesta nei modi e nei termini previsti dalla legge e cioè ogni anno per l'anno successivo, tramite lettera raccomandata inviata dal locatore al conduttore.
Tribunale di Lecce -Sentenza n. 1476 del 11 aprile 2014


Fonte : 
condominioweb.com 

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lunedì 21 luglio 2014

Vendita dell’immobile locato: quando scatta il diritto di prelazione

Vendita dell’immobile locato: quando scatta il diritto di prelazione

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Quando il padrone di casa mette in vendita l’immobile affittato, quali le tutele per l’inquilino?
Vendita di immobile locato e diritto di prelazione
Qualora il proprietario di un'abitazione concessa in locazione intenda mettere invendita l'immobile locato, la legge riconosce particolari tutele a favore dell'inquilino che vive nel suddetto appartamento. Innanzitutto un diritto di prelazione.
Diritto di prelazione: di che cosa si tratta
Il diritto di prelazione è il diritto che l'inquilino vanta nei confronti del venditore ad essere preferito nella scelta dell'acquirente, rispetto ad altri offerenti ed a parità di prezzo. Tale diritto potrà essere fatto valere qualora sussistano le condizioni di seguito indicate.
Nelle locazioni ad uso abitativo il diritto di prelazione è esercitabile solo qualora:
-il locatore invii lettera raccomandata per disdire il contratto di locazione alla prima scadenza dei 4 anni;
-il locatore non abbia la proprietà di altri immobili ad uso abitativo a parte quello adibito a propria abitazione.
-il locatore comunichi al conduttore la sua intenzione di vendere l'immobile locato nonché il corrispettivo e le altre condizioni della compravendita.
Il conduttore potrà, a sua volta, esercitare il diritto di prelazionedandone comunicazione al locatore, entro il termine di 60 giorni dalla data della ricezione della notifica effettuata dal locatore.
Cosa succede se il locatore non disdice il contratto e vende l'immobile?
In questo caso il diritto di prelazione non sarà operante e il nuovo acquirente dell'immobile subentrerà nei diritti e negli obblighi derivanti dal contratto di locazione, a fare data dall'acquisto dell'immobile.
Dunque nessun pericolo per l'inquilino poiché il contratto di locazione resterà in vita, con un nuovo soggetto quale padrone di casa. Il nuovo proprietario dovrà rispettare il contratto di locazione e subentrare come nuova parte contraente.
In conclusione, si constata come la legge tuteli fortemente l'inquilino che abbia preso un immobile in affitto, riconoscendogli un diritto di prelazione al fine di poter acquisire la proprietà del locale; ove non ne sussistano le condizioni il contratto di locazione sarà comunque opponibile dall'inquilino ai successivi proprietari dell'immobile.
FONTE : SUPERMONEY

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