domenica 6 luglio 2014

Carcere per chi affitta l'appartamento ad un gruppo di transessuali.

Carcere per chi affitta l'appartamento ad un gruppo di transessuali.

04/07/2014
Il favoreggiamento e la tolleranza della prostituzione. Può costare caro affittare un'abitazione ad una prostituta ed ancora più se le squillo sono più di una: lo sa bene un genovese, condannato a più di 2 anni di reclusione perché nell'immobile un gruppo di transessuali esercitavano il mestiere più antico del mondo.
Il reato commesso è quello previsto dai numeri 2 ed 8 dell'art. 3 della L. 75/1958 (cd. Legge Merlin), i quali puniscono rispettivamente il primo la condotta di chi accetti che nell'immobile locato ci si prostituisca (comma 1 numero 2) ed il secondo invece la condotta di chi sappia già prima di affittarlo che nell'immobile si eserciterà il meretricio ed a tal fine lo affitti, così quindi favorendo o sfruttando la prostituzione stessa (comma 1 numero 8). La pena è poi aumentata secondo quanto previsto dal successivo art. 4 num. 7 quando, come nel caso in questione, la prostituzione è svolta non da una ma da più persone, le quali realizzano così una vera e propria "casa di prostituzione". Ce ne siamo già occupati in passatoQuando l'affitto alla prostituta integra gli estremi del favoreggiamento?), spiegando appunto le differenze tra le due condotte ed illustrandone le conseguenze.
La consapevolezza della finalità illecita è sufficiente per la condanna. Perché si venga condannati per il reato previsto dall'art. 3 della Legge Merlin non occorre quindi affittare un immobile al fine di consentirvi la prostituzione ma è sufficiente che il proprietario, pur sapendo che nel locale si eserciterà la prostituzione, lo ceda ugualmente.
Non solo: non occorre che la consapevolezza della finalità illecita sia precedente al contratto, ben potendo il reato dirsi commesso anche quando solo dopo aver consegnato l'immobile all'inquilino si venga a sapere che il locale è stato trasformato in una casa di appuntamenti. Ciò poiché, come accennato, tollerare che l'inquilino utilizzi l'abitazione concessa in affitto per prostituirsi costituisce comunque un'attività di favoreggiamento (rientrante nell'ipotesi di cui all'art. 3 num. 8 della L. 75/1958) oppure, nella "migliore" delle ipotesi, di accettazione dello scopo (circostanza punita dall'art. 3 num. 2 della stessa legge).
Non importa l'intestazione dell'immobile: la pena spetterà a chi ne dispone. Cos'accade quando il contratto di affitto è sottoscritto da una persona diversa da quella che materialmente stringe accordi con l'inquilino? O diversa da quella che percepisce il fitto? Del reato risponderà comunque il proprietario, anche se, magari, neppure sa della finalità illecita cui è locato il suo immobile?
Assolutamente no: a rispondere del reato sarà sempre e comunque colui che materialmente ed effettivamente dispone dell'abitazione, anche se questa formalmente intestata a terziQuando la locazione ad extracomunitari irregolari diventa reato.
In tal senso la norma è chiara: l'art. 3 num. 2, infatti, punisce "chiunque, avendo la proprietà o l'amministrazione di una casa od altro locale?". Non importa quindi se a stringere gli accordi e percepire il fitto sia una persona diversa dal proprietario: sarà comunque l'effettivo "amministratore" del locale a rispondere dell'illecita finalità cui questo sarà (o è) destinata. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che uno dei principi cardine del nostro sistema penale è quello della cd. "responsabilità personale" penale: infatti, secondo quanto disposto dall'art. 27 della Costituzione "La responsabilità penale è personale", per cui si può essere puniti solo se si è l'autore di un reato e solo chi è l'autore del reato può essere punito.
La motivazione della richiesta di aumento del fitto inguaia il "gestore" del locale. Quindi, anche se il proprietario di un immobile è di norma il diretto responsabile del suo utilizzo, non potrà essere questi a venir condannato ma chi, gestendolo o in altro modo amministrandolo, lo ha materialmente ed effettivamente affittato ad una prostituta oppure, scoprendo successivamente che l'inquilino in quel locale si prostituisce, continua a tollerare che ciò accada.
Per questo la Cassazione, con sentenza del 27 giugno scorso, ha confermato la sentenza di condanna nei confronti di quel soggetto che, pur non essendo il proprietario dell'immobile adibito a casa di appuntamenti e pur addirittura non avendolo neppure egli fittato in origine, si è tuttavia successivamente comportato da gestore del locale, in quanto "si occupava di fissare il prezzo della locazione: fu lo stesso imputato a richiedere l'aumento del canone, richiesta motivata non in relazione alle dinamiche di mercato degli affitti, ma in considerazione dell'uso illecito dell'appartamento da parte di più persone." (Cass. Pen., Sez VI, sent. n. 27976 del 27/06/2014).
La prova della gestione di un immobile altrui. Tale avidità ha comportato, secondo la Cassazione, il raggiungimento della prova circa due circostanze: da un lato la consapevolezza da parte del locatore che nell'immobile si esercitasse il meretricio (e che lo si tollerasse, dal momento che è stato richiesto un aumento del canone, non certo la risoluzione del contratto?); dall'altra a incastrare colui il quale ha effettivamente tollerato (se non addirittura sfruttato) la situazione illecita: non il proprietario ma un soggetto diverso da questo, ossia un suo parente, il quale si è interessato di riscuotere il fitto chiedendone addirittura l'aumento in considerazione del buon andamento degli affari delle squillo. Egli ha così di fatto rivestito la figura di quel "chiunque" che l'art. 3 della Legge Merlin punisce quando "avendo l'amministrazione di una casa?la concede in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione (o accetta che la concessione continui ad essere finalizzata a questo scopo, il che è lo stesso)", secondo la previsione di cui all'art. 3 num. 2, ovvero "in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui" (art. 3 num. 8).
Quindi giusta la condanna inflitta in primo grado: nessuna scappatoia per "l'amministratore di fatto" nonostante il suo maldestro tentativo di riversare le responsabilità sull'ignara zia, intestataria dell'abitazione ma all'oscuro dell'attività che al suo interno veniva compiuta.
 Corte di Cassazione, sez. VI Penale, 27 giugno 2014, n. 27976



Fonte : condominioweb.com 

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